Trasferimenti immobiliari e utilizzo delle criptovalute quale corrispettivo

Trasferimenti immobiliari e utilizzo delle criptovalute quale corrispettivo

di DANIELE MINUSSI. L’articolo è tratto dal volume “La trasformazione digitale dell’attività notarile” a cura di Remo Maria Morone, Giuffrè 2022.

Il trasferimento della proprietà immobiliare nel sistema giuridico italiano. Nozione di «prezzo» nella vendita

Con la locuzione «trasferimento immobiliare» si allude ad ogni negoziazione per il cui tramite sia conseguito l’effetto del trasferimento della titolarità del diritto di proprietà ovvero di altro diritto reale relativamente ad un bene immobile. Nel nostro ordinamento, prescindendo dall’aspetto causale del contratto per il cui tramite sia perseguito questo risultato, risulta fondamentale la considerazione del sistema pubblicitario costituito dalla trascrizione nei pubblici registri immobiliari tenuti presso l’Agenzia del Territorio (attualmente un’articolazione dell’Agenzia delle Entrate). Tale formalità, disposta ai fini dell’opponibilità del trasferimento ai terzi (art. 2644 cod. civ.), l’uso della forma scritta ad substantiam actus ai sensi dell’art. 1350 cod. civ. e l’intervento notarile per la stipula delle contrattazioni da assoggettare alla riferita formalità pubblicitaria (art. 2657 cod. civ.) sono gli elementi salienti di ogni trasferimento immobiliare, come in precedenza definito. Ciò premesso, possono essere prospettati plurimi congegni negoziali idonei a sortire il riferito effetto, volti cioè a conseguire il trasferimento di diritti immobiliari da un soggetto ad un altro. Si può così evocare la donazione, la costituzione di rendita vitalizia, la transazione, la permuta, anche se appare evidente come il «re» dei contratti, a questo riguardo, sia la compravendita: l’atto in funzione del quale si verifica il trasferimento della proprietà di una cosa ovvero di un altro diritto contro il corrispettivo di un prezzo (art. 1470 cod. civ.), per tale intendendosi un corrispettivo in denaro. Queste precisazioni, dal sapore scontato, sono tuttavia decisive per delineare il perimetro dell’indagine che segue. Il tema, ineludibile e prodromico rispetto ad ogni considerazione giuridica, è infatti quello della qualificazione causale del contratto che deduca criptovaluta a fronte di un trasferimento immobiliare. Una verifica in tale direzione postula una preventiva indagine relativamente alla nozione di denaro e di criptovaluta, allo scopo di comprendere se quest’ultima possa essere sussunta quale specie del primo genere. Una volta esaminato questo nodo, solo allora, sarà possibile individuare il tipo negoziale appropriato per definire lo scambio della proprietà di un bene immobile contro la cessione di criptovaluta.

Il «prezzo» come misuratore di valore. La moneta, le criptovalute, l’obbligazione pecuniaria

Se per «prezzo» (termine usato dall’art. 1470 cod. civ. per identificare il valore di scambio di un bene oggetto di compravendita) si intende l’equivalente in unità monetarie di un bene o di un oggetto, di un servizio o di una prestazione, diviene immediato il riferimento alla «moneta» (nonché agli apparenti sinonimi «denaro» e «valuta») come all’altro termine dedotto nell’equilibrio sinallagmatico del contratto che vede, a fronte della corresponsione del prezzo, trasferire la proprietà del bene. Saranno dunque i termini «moneta», «denaro» e «valuta» a dover essere indagati, al fine di comprendere se una criptovaluta possa o meno essere sussunta sotto uno di essi, onde eventualmente poter concludere che essa può sostanziare il “prezzo» di una vendita.
Il «denaro» è parola che pare alludere ad un concetto astratto, ad un oggetto destinato a fungere da «valore-ponte» per consentire il superamento del baratto negli scambi (1). Esso, come tale, inizialmente si identificò in beni materiali quali conchiglie, pezzetti di metallo (più o meno raro, quale rame, argento, oro), successivamente coniati in monete, indi in altre forme, via via maggiormente “astratte”, come i biglietti di banca fino all’attuale «virtualizzazione». Il termine «valuta» pare invece legato più al corso legale del denaro, spesso in relazione ad operazioni di cambio, per l’appunto tra più «valute» (appellate anche come «divise» proprio per alludere all’appartenenza di ciascuna di esse ad un Paese ovvero ad un’area monetaria diversi l’una rispetto all’altro). Quali sono le caratteristiche definitorie del denaro? La natura di esso ha suscitato dibattiti serrati. V’è chi ha detto addirittura come «nemmeno l’amore ha fatto ammattire tanti uomini, quanto lo scervellarsi sulla nozione di moneta» (2). Attualmente, nonostante la criticità della temperie economica, le discussioni sul tema appaiono «sotto traccia», quasi avvolte da un alone di dogmatismo. Così è infrequente e desueto, ancorché essenziale, richiamare il pensiero di chi (3), definendo il denaro come «la merce più commerciabile», ne ha poi individuato gli elementi cardinali entro cinque categorie analitiche (sovranità/autorità/legge/sanzioni/continuità). L’idea di fondo è che lo scambio volontario nella prassi umana seleziona quei beni destinati a diventare «denaro», in quanto «pezzi» fungibili e misurabili destinati a facilitare gli scambi economici (4). Soltanto successivamente l’Autorità ne avoca il controllo diretto con il proprio intervento regolatorio, dando vita al corso legale (5). In qualunque caso, tre sono le fondamentali funzioni del denaro sulle quali converge il consenso degli economisti: a) l’utilizzo dello stesso quale unità di conto, b) la funzione di strumento di pagamento, c) infine la destinazione a riserva di valore. L’elemento cruciale, spesso non colto, è che, alla base di esso, vi sia comunque l’impiego di energia lavorativa. Per il baratto è semplice comprendere come lo scambio di un oggetto contro un altro sottenda una valutazione del lavoro necessario per la produzione di ciascuno dei termini concreti della contrattazione (6). Tale «incorporazione» di energia lavorativa vale, del tutto intuitivamente, anche per i metalli preziosi, con speciale riferimento all’oro, non a caso per secoli posto a base della monetazione. Infatti la sua estrazione richiede risorse finanziarie e mano d’opera. Vale la pena osservare come, in un tempo neppure tanto remoto, la moneta possedesse un valore intrinseco. Ad una determinata quantità di denaro circolante corrispondeva infatti una correlata quantità di oro, il metallo prezioso universalmente ritenuto come garanzia della «copertura» di ogni emissione monetaria. È evidente come ciò costituisse una remora per ogni Stato (oggi nell’Occidente sarebbe meglio parlare di Banca Centrale) in ordine ad una incontrollata creazione di moneta. Quando fosse stata incrementata la massa monetaria senza un corrispondente aumento delle riserve auree, l’evento si sarebbe automaticamente tradotto in una perdita di valore della moneta (7). Oggi, venuta meno ogni copertura rispetto ad un parametro prefissato, la moneta non possiede più valore legato ad un bene specifico, essendo costituita da semplici impulsi elettronici, pezzi di carta, di metallo o altro (sono in corso avanzato esperimenti relativi alla c.d. moneta elettronica (8), che si stanno già concretando in alcuni Paesi una accentuata dematerializzazione del denaro, fino alla vera e propria eliminazione del contante (9)) posti semplicemente in circolazione dalle autorità monetarie in ciascun Stato (10) quali sistemi di pagamento (c.d. denaro «fiat», vale a dire «che sia, che si crei»), dunque quali misuratori convenzionali di valore (11). Può tuttavia dirsi che il denaro circolante venga accettato come mezzo di pagamento di qualsiasi merce o servizio non solo in base all’atto autoritativo che gli conferisce tale rango, ma anche in base alla fiducia che si ripone nella capacità dell’autorità emittente di salvaguardarne nel tempo il valore. Le fluttuazioni del mercato dei cambi tra le varie divise rappresenta efficacemente la variazione di questa fiducia nei rapporti commerciali tra i vari Paesi (rectius: aree monetarie), mentre l’analogo fenomeno all’interno di un Paese si evidenzia per il tramite della variazione dei prezzi (inflazione). Se il giorno 1° gennaio di un certo anno per acquistare un chilo di mele occorre un euro e dopo dodici mesi ne occorrono 1,05 (a parità di qualità e di quantità di prodotto) ciò significa che vi è stata all’interno del Paese una perdita di capacità di acquisto della moneta pari al 5% su base annua (per lo meno in relazione alle mele). Ogni ordinamento giuridico fissa la propria unità monetaria secondo una misura legale a cui si riportano i singoli strumenti monetari circolanti. Conseguentemente quella moneta costituisce il tramite per procurarsi qualsiasi altra cosa o servizio essendo il misuratore del valore di scambio di tutti i beni e i servizi. La possibilità di disporre del denaro non presuppone necessariamente la materiale detenzione della moneta (carta o supporti metallici) che risulta funzionale alla circolazione di esso. Anzi, come si è detto, i tempi attuali sono contraddistinti da un sempre più elevato grado di dematerializzazione del denaro che avviene per il tramite dell’utilizzo di carte di credito, di pagamenti effettuati con bonifici elettronici fino al punto da vietare, se non entro limiti assai circoscritti, il pagamento in contanti, cioè con lo strumento che originariamente era deputato proprio legalmente a svolgere tale funzione (su tale aspetto, connesso alla attività di antiriciclaggio, cfr. infra, par. 5). Queste riflessioni aprono la strada per l’analisi della natura e della funzione della criptovaluta, con speciale riferimento al Bitcoin, che potremmo assumere come archetipo delle stesse (12). Esso, in un certo senso, replica le caratteristiche del metallo prezioso, sia pure nella diametralmente opposta dimensione della virtualizzazione e dematerializzazione. Anche la produzione di un Bitcoin infatti «costa» in termini di energia e/o lavoro (deve infatti essere “minato”, distribuito, governato: utenti, nodi, «minatori» e sviluppatori sono attori indispensabili di un processo che deve essere retribuito per poter procedere, proprio come l’attività estrattiva dei metalli. A questo punto si pone la domanda di fondo: come qualificare il Bitcoin (13): è forse moneta? Invero la natura giuridico-economica di esso è vivacemente dibattuta. Giova rammentare che esso non viene regolato da alcuna autorità emittente, ma si basa su un registro distribuito su blockchain, i cui nodi sono decentralizzati. Le transazioni intervengono tramite algoritmi di criptazione asimmetrica in base ad una chiave pubblica (come tale conoscibile universalmente) ed una chiave privata, che invece è conosciuta soltanto dal suo titolare e che consente a lui soltanto di compiere atti di disposizione. Secondo un’opinione, si tratterebbe di una moneta complementare, vale a dire di uno strumento di pagamento emesso privatamente e accettato su base contrattuale, in alternativa rispetto alla valuta avente corso legale (14). Altri fanno riferimento alla nozione di «moneta elettronica» (15), specie monetaria che nell’Eurozona è contemplata dalla dir. n. 110/2009/CE (alla quale l’Italia ha conferito attuazione con D.Lgs. 16 aprile 2012 n. 75). Tuttavia detto apparato normativo non risulta applicabile al mondo delle criptovalute, con specifico riferimento agli artt. 2 e 11: i Bitcoin infatti non sono emessi in cambio di moneta espressa in valuta avente corso legale né sono emessi da un istituto bancario. V’è poi chi qualifica i Bitcoin come bene immateriale. L’elemento qualificante consisterebbe nella stringa alfanumerica oggetto di registrazione sulla blockchain. Tuttavia le opere dell’ingegno sono connotate da caratteristiche proprie che le distinguono dai beni materiali: infatti esse possono venire riprodotte, dunque fruite, pur senza avere a disposizione il substrato materiale che originariamente le incorpora (si pensi alla riproduzione fotografica di una rappresentazione pittorica su una tela). Un singolo Bitcoin invece non solo non è riproducibile, ma non può neppure essere fruito da più utilizzatori nello stesso momento. Si può addirittura riferire come tale eventualità integrerebbe il c.d. «double spending» che è proprio il risultato che si intende tassativamente escludere con qualsiasi criptovaluta. Naturalmente rimane la possibilità, anche se non particolarmente fruttuosa sotto il profilo della individuazione della disciplina applicabile, di qualificarlo comunque nel novero dei beni immateriali (dunque non «cose») diversi dalle opere dell’ingegno (16).
Neppure la prospettazione dei Bitcoin come mera commodity, sia pure qualificata da speciali caratteristiche che li distinguerebbe dai beni standardizzati usualmente definibili come tali (soft commodities: soia, granaglie, cereali; hard commodities: petrolio, metalli ferrosi e non ferrosi), configurando piuttosto un’autonoma categoria di commodity finanziaria, conduce ad esiti ermeneutici soddisfacenti. Ogni bene facente parte di una specifica specie di commodity è contrassegnato infatti da un’assoluta fungibilità (un chicco di riso vale un altro), mentre il Bitcoin non è assolutamente un bene fungibile (ciascun Bitcoin è individuato dalla propria specifica doppia chiave crittografica e, conseguentemente, si distingue in maniera assoluta da un altro). Ciò anche se, nella rappresentazione delle parti, si potrà per lo più sostenere il contrario (17). Miglior fortuna non arride a chi ha qualificato il Bitcoin come prodotto finanziario: se la definizione di quest’ultimo corrisponde nell’ordinamento italiano a quella portata dall’art. 1, comma 1, lett. u), d.lgs. 24 febbraio 1998 n. 58 (c.d. TUF), che identifica gli strumenti finanziari e ogni altra forma di investimento di natura finanziaria è agevole escludere il Bitcoin dalla prima categoria, connotata dalla tipicità. Quanto alla seconda, contrassegnata dall’atipicità, va comunque osservato come parrebbe intrinseco nel concetto di «prodotto finanziario» la presenza di un emittente per qualsiasi strumento che legalmente aspiri a tale qualifica: invece, come è noto, il Bitcoin è costruito su un protocollo decentralizzato che si pone logicamente in contrasto con tale concetto. Ma qual è l’opinione della giurisprudenza alla stregua degli indici del diritto positivo? Conviene partire dai dati emergenti dalla pronunzia della Corte di Giustizia dell’UE dell’ottobre 2015 (18), la quale si è espressa sulla assoggettabilità o meno all’Imposta sul Valore Aggiunto delle operazioni di cambio di Bitcoin in senso negativo, escludendo cioè dal pagamento dell’IVA le predette negoziazioni. A tale orientamento ha fatto riferimento anche l’Agenzia delle Entrate (19), la quale ha concluso in maniera del tutto analoga, espressamente richiamando il riferito precedente, assimilando altresì le monete virtuali alle valute estere, pur dovendosi rilevare come i Bitcoin non abbiano corso legale in nessun Paese al mondo. In altri ordinamenti hanno adottato un approccio più pragmatico: negli USA, ad esempio, l’IRS (Internal Revenue Service) qualifica i Bitcoin come asset paragonabili a qualsiasi property, come tali tassabili in relazione al capital gain che discende dalla cessione susseguente all’acquisto che ne fosse stato in precedenza effettuato dal contribuente. Ad una conclusione analoga soltanto sotto il profilo della tassazione delle plusvalenze è giunto anche il fisco italiano, tenuto conto che il d.lgs. n. 90/2017 ha esplicitamente inserito l’utilizzo delle criptovalute nelle operazioni relative ai trasferimenti da e per l’estero, rilevanti ai fini del relativo monitoraggio fiscale, attraendo altresì i prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale alla categoria degli operatori non finanziari. Va altresì segnalata la pronunzia del TAR Lazio 27 gennaio 2020 n. 1077 (20) che, “dribblando” ogni problematica ricostruttiva del fenomeno, ha concluso nel senso della legittimità dei provvedimenti dell’AE, configurati quali semplici istruzioni ricognitive delle disposizioni di cui al d.lgs. n. 90/2017, in forza del quale le operazioni con monete virtuali sono state, come riferito, da inserire negli obblighi dichiarativi fiscali tramite quadro RW da allegare al c.d. “modello Unico”. A questo punto, pur senza trarre considerazioni conclusive sul tormentato tema della natura giuridica delle criptovalute, questione ampiamente dibattuta e sulla quale si può soltanto riferire di un quadro in continua evoluzione, si può tuttavia tentare di darne, per gli scopi che qui interessano, una definizione in negativo, alla stregua del diritto positivo. Proprio con riferimento al dato normativo, è così lecito anzitutto assumere con certezza che le criptovalute (in particolare il Bitcoin) non possono essere considerate come valuta legale nel nostro Paese. Con un certo grado di sicurezza potremmo anche assumere che non si tratti di divisa straniera, pur tenendo conto della predetta ragion fiscale. Se è vero infatti che, ai fini della tassazione, l’erario considera le operazioni di trasformazione di criptovalute in valuta legale che generano plusvalenza come trasferimenti da e per l’estero, questo non comporta automaticamente che, sotto il profilo sostanziale, le criptovalute siano valute straniere. Da questo punto di vista la banale constatazione che in nessun Paese al mondo esse siano considerate strumento legale di pagamento è invero tranciante.
Tanto basta ai fini della nostra indagine, perché l’altro elemento sinallagmatico del congegno contrattuale proprio della compravendita (il primo sostanziandosi nella attribuzione patrimoniale consistente nel trasferimento del bene che ne costituisce l’oggetto) è invece costituito dall’obbligazione pecuniaria facente capo all’acquirente. Essa, come tale, deve essere adempiuta, ai sensi dell’art.1277 cod. civ., consegnando al creditore moneta avente corso legale nello Stato. Si tratta di un’obbligazione generica, vale a dire avente ad oggetto quantità omogenee di cose di genere e fungibili la cui radice originaria si basava nel passato proprio tenuto conto della consistenza materiale dell’oggetto della stessa (la moneta). Questa concezione valorizzava il profilo materiale del denaro, non già quello, sicuramente prevalente, dell’aspetto funzionale di esso (quale strumento di pagamento e di misurazione del valore). Va tuttavia sottolineato che la disciplina delle obbligazioni generiche prevede regole assolutamente incompatibili rispetto alla natura delle obbligazioni pecuniarie. Si pensi al principio secondo il quale il debitore deve prestare “cose di qualità non inferiore alla media” (art. 1178 cod. civ.). Si ponga mente, ancora, alle disposizioni relative al passaggio del rischio per il perimento delle cose in conseguenza dell’acquisto della proprietà per effetto dell’individuazione (art. 1378 cod. civ.). Dette regole non possono riferirsi alla moneta, in rapporto alla quale, con certezza, non si pone né il problema del rischio del perimento del genere limitato (l’evento paragonabile è specifico e consiste nel porre fuori corso una moneta determinata) né quello della prestazione di cose di qualità non inferiore alla media. L’autonomia della disciplina dell’obbligazione pecuniaria rinviene una conferma nell’art. 1182, comma 3, cod. civ., norma che prevede, quale luogo di adempimento, in difetto di un diverso accordo tra le parti, il domicilio del creditore (salvo il caso in cui il domicilio sia diverso «da quello che il creditore aveva quando è sorta l’obbligazione e ciò renda più gravosa l’obbligazione»). È proprio la caratteristica funzionale dell’obbligazione pecuniaria che la distingue da ogni altra, con particolare riferimento a quelle generiche. Il principio cardine della specie di obbligazione in esame è infatti costituito dalla regola in base alla quale il debito pecuniario si estingue per il tramite di moneta avente corso legale nello Stato al tempo del pagamento (c.d. principio nominalistico: art. 1277 cod. civ. (21)). Ogni altro strumento di pagamento non può essere considerato quale succedaneo, a meno che in tale senso non si siano accordati creditore e debitore (tramite datio in solutum: art. 1197 cod. civ.: si veda, al riguardo, per un tentativo di assunzione sotto tale schema delle negoziazioni che avvengono mediante corresponsione di criptovaluta, infra, par. successivo) (22). È il caso di segnalare come il tema in parola vada messo a confronto con la legislazione intesa a vietare l’esecuzione del pagamento in contanti per importi via via decrescenti nel tempo (infra, par. 5, nota 48). Qualora il debito pecuniario sia espresso in moneta estera, il debitore può pagare di regola anche in moneta nazionale, al corso del cambio nel giorno della scadenza (art. 1278 cod. civ.). Peraltro, se le parti avessero convenuto, per il tramite della clausola “effettivo” o altra equivalente, che il pagamento sia da effettuarsi proprio nella moneta pattuita, il debitore sarebbe tenuto ad adempiere con la divisa straniera (art. 1279 cod. civ.). I ragionamenti fin qui condotti permettono di addivenire ad una conclusione: nella misura in cui nessuna criptovaluta (e, tra le stesse, soprattutto il Bitcoin) è stata adottata da uno Stato sovrano (ovvero da un’area monetaria) come moneta avente corso legale, la valenza di ciascuna di esse non può non essere relegata, al più, all’ambito delle “monete volontarie”, vale a dire accettate, come tali, su base esclusivamente convenzionale. Ciò conduce a negare che alcuna delle stesse abbia la forza di estinguere legalmente un’obbligazione pecuniaria, stante il riferimento normativo esplicito dell’oggetto esclusivo della stessa in chiave di moneta avente corso legale.

Definita la compravendita come quel contratto che ha per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa o il trasferimento di un altro diritto verso il corrispettivo di un prezzo (art. 1470 cod. civ.); chiarito altresì come per «prezzo» si intenda una somma di denaro, inteso come valuta avente corso legale nel luogo ove intercorre il pagamento, discendono conseguenze rilevanti ai fini della nostra indagine. Se, come è stato riferito nel paragrafo che precede, nessuna criptovaluta possiede corso legale (23), la negoziazione avente ad oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa verso il trasferimento di una determinata quantità di criptovaluta non potrà essere considerata come «compravendita», pur non mancando chi ne ha dato tale qualificazione (24). Prima di escludere in radice tale via, occorre occuparsi di un’ipotesi operativa che, in base ad un percorso obliquo, tenterebbe di costruire la negoziazione secondo uno schema bifasico. In primo luogo infatti verrebbe perfezionata una normale compravendita, deducente un prezzo in valuta legale da corrispondersi in un tempo differito con specifiche modalità di pagamento (25). In un secondo tempo si darebbe vita ad una datio in solutum (art. 1197 cod. civ.). Tramite un atto ulteriore, verrebbe cioè attestato che il (già acquirente) Tizio, d’accordo con il (già venditore) Caio, invece che corrispondere a quest’ultimo il prezzo convenuto di euro (X), trasferisce l’importo pari a (Y) in criptovaluta. Per tale via l’intera negoziazione potrebbe dirsi finalmente conclusa, con l’esecuzione del «pagamento» finale, sia pure eseguito in maniera differente rispetto a quanto emergente dalla vendita (26). Ciò sarebbe praticabile perché, fermo restando che l’esatto adempimento presuppone l’esecuzione della prestazione contrattualmente prevista, il citato art.1197 cod. civ. apre la via alla possibilità che il creditore consenta una differente modalità di effettuazione della prestazione rispetto a quella originariamente programmata. In questa ipotesi l’effetto estintivo segue, come nell’esemplificazione pratica sopra prospettata, al tempo dell’esecuzione concreta della prestazione diversa rispetto a quella dedotta in obbligazione, cioè, nell’esempio, al momento della corresponsione di una determinata quantità di criptovaluta invece che del prezzo in moneta avente corso legale. Certamente questo procedimento funziona e corrisponde, considerato come operazione una tantum, ad uno schema legale perfettamente valido ed efficace. Questo esito non è invece scontato, tuttavia, in riferimento alla reiterazione della fattispecie programmaticamente concepita ab initio dalle parti nei termini riferiti. La dazione in pagamento, per essere veramente tale, postula infatti che vi sia un debitore tenuto ad eseguire una prestazione specifica e determinata. Costui non già si accorda con il creditore per variare semplicemente l’oggetto della prestazione né prima dell’instaurazione del rapporto obbligatorio, né successivamente (27), se non al momento stesso dell’esecuzione della diversa prestazione (28). Nella fattispecie oggetto della nostra indagine invece verrebbe posto in essere un vero e proprio procedimento, fin dall’inizio teleologicamente inteso a permettere che abbia luogo uno scambio tra il diritto (di proprietà) di un bene da un lato, contro la corresponsione di una certa quantità di criptovaluta dall’altro. Compravendita e susseguente dazione in pagamento non sarebbero altro se non altrettanti atti, avvinti da un collegamento negoziale finalizzato ad ottenere un risultato pratico diverso da quello palesato dall’elemento causale che sarebbe proprio di ciascun atto negoziale separatamente riguardato. La constatazione di una siffatta situazione potrebbe non essere senza conseguenze. Il fulcro è costituito dalla messa a fuoco della reale portata dell’elemento causale, come nitidamente statuito dalla Cassazione (cfr. Cass., Sez. II, 16 aprile 2007 n. 9088) con una decisione che, per tale motivo, vale la pena di rammentare (29). Non è sufficiente considerare solo il primo atto negoziale: bisogna interrogarsi se si possa parlare di un elemento causale proprio della fattispecie complessa, cioè formata dalla pluralità dei negozi collegati (30), oppure se la causa propria di ciascuno di essi rimanga autonoma (31). In giurisprudenza le risposte non sono univoche (32). Quando lo scopo concreto in funzione del quale vengono assemblati tra loro più congegni negoziali contrasta con norme imperative, l’ordinamento ha a disposizione norme idonee ad affrontare il tema: si pensi all’art. 1344 cod. civ.. Non è certo infrequente che, per il tramite del collegamento negoziale, si dia infatti ingresso a fattispecie oblique di frode alla legge (Cass., Sez. III, 18 aprile 1996 n. 3661). Atti negoziali, di per sé pienamente validi, isolatamente non riconducibili ad intenti fraudatori, una volta posti in collegamento tra di essi, possono palesare, al contrario, finalità contrastanti con la legge, ovvero elusive di specifiche disposizioni (33). V’è di più: accogliendo una concezione «sintetica» della causa, intesa come verifica dinamica da parte dell’interprete della corrispondenza tra intento pratico dei contraenti e schema astrattamente corrispondente a quello tipologico del contratto prescelto, non soltanto è possibile, ma persino doveroso (non già allo scopo di un giudizio «obliquo» come quello introdotto dalla struttura critica di cui all’art. 1344 cod. civ., bensì al fine di una valutazione «diretta», a mente dell’art. 1345 cod. civ.) apprezzare il reale intento dei contraenti, seguendo l’intero arco del percorso costituito dagli atti negoziali collegati (34). La rilevanza causale complessiva del collegamento sarà dunque quella di permettere un giudizio concreto sul senso globale dell’operazione, senza arrestarsi al frammento costituito dalla singola unità negoziale. La causa in concreto può così non corrispondere a quella tipica. Riportando i termini del ragionamento a ciò di cui stiamo occupandoci, potrebbero prospettarsi due scenari alternativi, dalle conseguenze significativamente divergenti. In primis si potrebbe concludere che la vendita non sia effettivamente tale, bensì una permuta «camuffata». Le conseguenze, benigne, si ridurrebbero a siffatta riqualificazione causale. È tuttavia ipotizzabile una ricostruzione alternativa, dagli esiti non altrettanto favorevoli, in considerazione di ulteriori apprezzamenti nonché delle concrete modalità di esecuzione e delle menzioni contenute nella vendita e nel successivo atto di dazione in pagamento (quando fosse stipulato per atto pubblico o per scrittura autenticata). Si faccia mente locale a quanto emerge dalle più sopra ricordate Risoluzioni dell’Agenzia delle Entrate e Studi del Consiglio Nazionale del Notariato (35). Potrebbe infatti essere prospettabile, sulla scorta della ritenuta violazione della disciplina sul tracciamento degli strumenti di pagamento, sulla consapevole e volontaria non corrispondenza al vero delle dichiarazioni (giurate) effettuate dalle parti della vendita relative ai (futuri) pagamenti da eseguirsi (magari anche del fraudolento concorso dei professionisti coinvolti nella negoziazione a vario titolo) addirittura la nullità di entrambi gli atti, funzionalmente collegati, per frode alla legge, quando non addirittura per illiceità della causa. Il tutto a voler tacere degli eventuali profili di illiceità penale. Né potrebbero essere invocate le più miti conseguenze alle quali fa riferimento Cass., Sez. III, 15 gennaio 2020 n. 525, il cui esempio si rivela emblematico proprio in relazione al tema che stiamo affrontando. Nella fattispecie sottoposta all’attenzione della S.C. era stata domandata la dichiarazione di nullità del contratto di vendita di un immobile a causa della violazione della l. n. 231/2007 in tema di antiriciclaggio, dal momento che era stato eseguito il pagamento del prezzo in contanti, nonostante la previsione (e il rilascio) espressa nell’atto di vendita di assegni bancari regolarmente intestati all’ordine della parte venditrice. Successivamente le parti sostenevano di aver raggiunto un accordo in virtù del quale i titoli sarebbero stati surrogati da denaro contante, stante la mancanza di un conto corrente di appoggio da parte dell’alienante. Si tratta, con tutta evidenza, di una ipotesi che rispecchia, fatte le debite «sostituzioni» (criptovaluta invece che denaro contante) esattamente il caso che ci occupa. V’è tuttavia una differenza fondamentale: la valenza episodica della fattispecie di cui alla pronunzia citata si distingue in maniera assoluta rispetto alla programmatica immutazione che avverrebbe in riferimento alla stipulazione di una datio in solutum susseguente alla vendita, la quale non potrebbe non implicare una sicura valutazione in chiave di falso ideologico della dichiarazione relativa al pagamento dilazionato fatta dalle parti in sede di compravendita, dichiarazione scientemente non corrispondente al vero, divergenza della quale, tra l’altro, il pubblico ufficiale rogante non potrebbe dirsi essere all’oscuro.
Per tutti questi motivi pare appropriato qualificare il contratto con il quale viene trasferito un diritto immobiliare a fronte della cessione di criptovaluta esclusivamente in chiave di permuta, dal momento che l’art. 1552 cod. civ. la definisce come il contratto avente ad oggetto il reciproco trasferimento della proprietà di cose o di altri diritti da una parte all’altra. Come è stato icasticamente riferito (36) nella permuta sono presenti i caratteri peculiari della compravendita, «come contratto traslativo e sono presenti non ex uno latere, ma per così dire in maniera duplicata, sì che tutti i problemi (o quasi) della fisiologia e della patologia della vendita… implicati dall’alienazione del diritto… possono senz’altro estendersi, in via di principio, a questo contratto». Che una criptovaluta possa essere ricondotta alla generale nozione di «bene» (specificamente bene immateriale in relazione al quale può configurarsi l’esistenza di un diritto) non parrebbe invero essere revocabile in dubbio. Utile può essere il riferimento alla distinzione tra «cosa» e «bene» sul quale ci siamo già soffermati (supra, par. 2 nota 15). Possiamo qui limitarci a riferire che, pur non potendosi assolutamente definire una criptovaluta come una «cosa» intesa come oggetto materiale, certamente essa è un bene (immateriale) in senso giuridico (supra, par. 2) e, in ogni caso, può ben essere ricompresa nella comprensiva locuzione «altro diritto» di cui all’art. 1552 cod. civ. (37), eliminando ogni eventuale perplessità circa l’idoneità della stessa a formare validamente oggetto di permuta. Certamente si tratterà di una specie assolutamente peculiare di permuta, dal momento che l’oggetto di una delle prestazioni (rectius: delle attribuzioni traslative) sarà simile al denaro, avendo in comune con esso la caratteristica di rinvenire, quale peculiare utilità (38), quella di fungere da strumento di scambio. La criptovaluta infatti pare essere dotata della specifica funzione di svolgere il ruolo proprio dello strumento di pagamento, sia pure su base «volontaria» e non legale (39).

Conseguenze pratiche della qualifica del contratto in chiave di permuta. Disciplina giuridica dei trasferimenti immobiliari a fronte della corresponsione di criptovaluta

Le considerazioni appena svolte possiedono notevoli implicazioni circa la disciplina legale dei contratti in parola. La scarna disciplina legale della permuta, formata soltanto da quattro articoli del codice civile, si fonda infatti sul rinvio recettizio operato dall’art. 1555 cod. civ., in forza del quale le norme stabilite per la vendita si applicano alla permuta, in quanto compatibili. Due sole le regole peculiari: in tema di evizione (art. 1553 cod. civ.) e di spese (art.1554 cod. civ.). Esse, applicate ad una permuta che avesse ad oggetto ex uno latere criptovaluta, ben potrebbero risultare eversive rispetto a tale impianto. Sarebbe infatti legittimo l’interrogativo circa la possibilità, ordinariamente esclusa, di utilizzare tutte le regole dettate in tema di vendita che vedono il prezzo quale presupposto essenziale. Si pensi all’art. 1474 cod. civ., circa la mancanza di espressa determinazione del prezzo, all’art.1498 cod. civ., relativo alle modalità di pagamento dello stesso. Ancor più pregnanti le conseguenze in materia di evizione. L’art. 1553 cod. civ. infatti, ponendo fuori gioco la regola di cui all’art. 1483 cod. civ., dispone che, se il permutante ha sofferto l’evizione (totale) e non intende riavere la cosa data, ha diritto al valore della cosa evitta, secondo le norme proprie della vendita, salvo il risarcimento del danno. Come pretendere l’applicazione di questa regola nel nostro caso? Risulterebbe applicabile non già il disposto di cui all’art. 1553 cod. civ., quanto quello, ben differente, di cui all’art. 1483 cod. civ.. Quest’ultimo, richiamando l’art. 1479 cod. civ., conduce alla restituzione del «prezzo» pagato. Nella fattispecie, il tutto condurrebbe alla restituzione della «determinata quantità di criptovaluta» già trasferita quale corrispettivo della permuta. Non basta: la distinzione tra vendita e permuta si fa ancor più difficoltosa approfondendo l’argomento tradizionale della rilevanza della pratica distinzione tra i due schemi negoziali. Vi sono infatti alcuni istituti che rinvengono applicazione esclusiva alla vendita, ma non alla permuta. Si pensi alle ipotesi di prelazione legale, che postulano una piena fungibilità della prestazione. In tanto il prelazionario si potrebbe sostituire al contraente estraneo, in quanto ciò avvenga a parità di condizioni. Ciò è naturalmente escluso nella permuta, a causa della infungibilità dell’attribuzione traslativa che ne costituisce l’oggetto. Così, ad esempio, nella prelazione agraria, che per l’appunto sarebbe posta fuori gioco dal congegno permutativo (cfr. art. 8, l. 26 maggio 1965 n. 590) (40). La stessa cosa non potrebbe essere detta nel trasferimento immobiliare che deduca, come controprestazione, la corresponsione di criptovaluta. È infatti innegabile che ricevere 10 Bitcoin da Tizio piuttosto che da Caio non cambi nulla (41). Le cose dette non possono non sollecitare l’interprete a voler approfondire il tema dell’elemento causale di vendita e permuta. Mentre la prima deduce asimmetricamente un’attribuzione traslativa contro una prestazione (avente ad oggetto il pagamento del prezzo), la permuta consiste piuttosto di una duplicità di attribuzioni traslative incrociate, ma simmetriche. Conviene su questo aspetto svolgere una riflessione: mentre nella vendita si può parlare di inadempimento dell’obbligazione relativa al pagamento del prezzo, nella permuta questo non avrebbe senso. Stante l’efficacia traslativa del consenso (art. 1376 cod. civ.) che contrassegna ciascuna delle attribuzioni che trovano luogo nell’atto permutativo, qualsiasi accadimento che si riverberasse nella mancanza di trasferimento di ciascun bene coinvolto nello scambio non potrebbe non reagire sul profilo causale del contratto. Così il mancato trasferimento dei Bitcoin darebbe luogo non già ad una semplice valutazione della condotta della parte in chiave di inadempimento contrattuale, bensì di nullità della permuta per mancanza di causa.
Anche sotto il profilo funzionale la distinzione teorica tra i due schemi è netta. Nella permuta ciascuno dei contraenti acquista il bene offerto dall’altro per usarlo o per impiegarlo direttamente secondo l’utilità naturale. Nella vendita invece una attribuzione ha per oggetto un bene assunto per la sua utilità diretta, l’altra, (prestazione dell’acquirente) ha piuttosto ad oggetto la corresponsione di un prezzo, come tale assunto per quella speciale utilità strumentale che è costituita dalla funzione misuratrice dei valori economici (42). Questa distinzione entra in crisi nel caso in cui al prezzo in denaro venga sostituita una criptovaluta (43). Come già messo a fuoco, infatti essa possiede la eminente funzione di fungere da mezzo di scambio, come tale sommamente fungibile e non dotato di ulteriore utilità intrinseca, proprio come il denaro avente corso legale, dal quale sembrerebbe differire unicamente per la mancanza di tale «imprimatur» autoritativo. Sono per tale aspetto riproponibili, assolutamente potenziate, tutte quelle perplessità riferite in tempi passati a proposito del criterio discretivo di quelle negoziazioni che avessero quale oggetto lo scambio di un bene contro una somma di denaro (a conguaglio) e un ulteriore bene da esso diverso (44).
Da un punto di vista squisitamente pratico sembrerebbe più prudente, per chi dovesse assistere le parti dell’atto permutativo in parola, fare rigorosa applicazione delle clausole contrattuali (prelazione volontaria) o delle norme di legge (prelazione legale) imperniate sulla fungibilità della prestazione in capo all’acquirente del diritto immobiliare, così conferendo alla stipulazione, sotto tale profilo, disciplina analoga alla compravendita. A maggior ragione questo esito interpretativo si impone in tema di disposizioni sul tracciamento dei pagamenti e di verifiche antiriciclaggio (infra, par. successivo).

5. Obbligo di tracciamento e disposizioni antiriciclaggio: applicabilità al trasferimento di criptovaluta quale corrispettivo dell’alienazione di diritti immobiliari

Come è noto, ai sensi dell’art. 35, comma 22, d.l. 4 luglio 2006 n. 223, «all’atto della cessione dell’immobile, anche se assoggettata ad Iva, le parti hanno l’obbligo di rendere apposita dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà recante l’indicazione analitica delle modalità di pagamento del corrispettivo» (45). Si tratta del c.d. obbligo di «tracciamento» del pagamento (46) che incombe sugli intermediari dell’operazione, quali i notai che, in sede di redazione dell’atto, sono pertanto tenuti ad effettuare le relative menzioni (47). L’esame del dato testuale è invero decisivo. La legge non parla di pagamento del «prezzo» o di «adempimento di un’obbligazione pecuniaria», ciò che avrebbe potuto escludere dal disposto della norma i pagamenti effettuati con modalità diverse dall’utilizzo di valuta legale. Ne discende come la disposizione predetta possa ben dirsi applicabile anche all’impiego di criptovaluta trasferita quale corrispettivo dell’alienazione di un diritto reale immobiliare. Non v’è pertanto alcuna esigenza di forzare il dato normativo per assoggettare anche la specie di permuta qui in esame agli obblighi di tracciamento ex lege «Bersani». All’inverso, è invece appena il caso di far presente come al Bitcoin (o ad altre criptovalute) non siano applicabili le note limitazioni ai pagamenti effettuati mediante denaro contante (48). Il contante è infatti qualificato dal corso legale: quel corso legale che nessuna criptovaluta, come abbiamo già riferito, possiede.
Per quanto attiene alle verifiche antiriciclaggio (49) che il notaio, quale professionista intermediario ancor prima che come pubblico ufficiale, è tenuto a compiere, va svolta una premessa. È opinione diffusa che le criptovalute, con speciale riferimento al Bitcoin, siano possibile strumento di riciclaggio, ostacolando la tracciabilità dei flussi finanziari e assicurando l’anonimato nelle transazioni commerciali che lo utilizzano (50). Due sono le ipotesi di base in riferimento a fattispecie potenzialmente illecite. La prima è costituita dall’acquisto di Bitcoin in sé considerato (operato da colui che sia l’autore del reato presupposto ovvero da un soggetto diverso da costui (51)), la seconda dal reimpiego dei Bitcoin che costituiscano provento di reato che siano «ripuliti» convertendoli in denaro oppure in altre utilità (quali, ad esempio, l’acquisto di beni immobili). Una compiuta disamina dell’articolato panorama di ipotesi che si possono configurare esula tuttavia dal nostro tema. È sufficiente al riguardo richiamare il penetrante studio di chi (52), analizzando la casistica (acquisto dei Bitcoin con denaro di provenienza illecita ad opera di persona diversa dall’autore del reato presupposto, sia mediante una operazione digitalizzata, sia tramite operazione non digitalizzata; acquisto dei Bitcoin con denaro di illecita provenienza secondo lo schema del «riciclaggio digitale integrale», tanto nel caso in cui ciò avvenga ad opera di soggetto diverso dall’autore del reato presupposto, quanto in quello in cui intervenga ad opera dell’autore del reato presupposto; spendita di Bitcoin che costituisca provento di reato ad opera di soggetto diverso dall’autore del reato presupposto oppure effettuata direttamente da quest’ultimo) ha compiuto una fondamentale osservazione. I Bitcoin sono tutti necessariamente registrati sulla blockchain, come tutte le vicende ad essi pertinenti. «Il sistema è talmente trasparente che, una volta identificato un determinato Bitcoin sospetto, è possibile anche avere la notizia di tutti coloro che sono stati suoi utilizzatori fin dall’origine della blockchain» (53). Occorre dunque respingere con decisione l’idea che un pagamento effettuato in criptovaluta non sia tracciabile. In un certo senso si dovrebbe piuttosto riferire di esso come di un «movimento» scritto permanentemente sui registri condivisi della blockchain: dunque quanto di più duraturo e permanente possa essere immaginato. Inoltre la convinzione secondo la quale il Bitcoin (assumendo in considerazione la criptovaluta per eccellenza, ma potenzialmente estendendo la valutazione anche ad altre specie), essendo una valuta virtuale decentralizzata, sia del tutto anonima, è fallace. La definizione più appropriata è quella di valuta «semi-anonima». La difficoltà di rinvenire il flusso non è infatti tale per gli investigatori informatici che si mettano alla caccia degli spostamenti della moneta tra indirizzi e, infine, verso un exchange (una sorta di «agente di cambio» che, come tale, è tenuto a rispettare la normativa antiriciclaggio). Una compiuta disamina relativamente alla fruizione delle criptovalute come strumento elusivo sia dell’identificazione del soggetto «pagatore», sia del tracciamento del flusso di provenienza non appartiene però al campo della presente indagine. Qui si tratta piuttosto di mettere a fuoco se un trasferimento di criptovaluta che intervenga quale attribuzione patrimoniale nell’ambito di una contrattazione che deduca un trasferimento immobiliare possieda caratteristiche idonee a consentire l’identificazione del «pagatore» e del flusso dei trasferimenti. E la risposta è positiva: risulta infatti possibile non solo che il soggetto «pagatore» palesi la propria identità mediante consegna di un token ovvero della stringa di «parole chiave» costituente la chiave pubblica che, come tale, è in grado di assicurare la possibilità di identificare univocamente (54) la criptovaluta sulla blockchain, ma addirittura che il tracciamento dei trasferimenti della stessa venga assicurato dalla consultazione dei registri decentralizzati (55). Essi, come tali, neppure sono tenuti da un soggetto specifico, dipendendo dalla contemporanea validazione dei nodi della blockchain, né possono essere alterati (se non per effetto del «consenso» che coinvolgesse oltre la metà dei nodi decentralizzati di cui si compone la blockchain, evento praticamente impossibile, stante il livello dimensionale raggiunto). Quest’ultima considerazione risulta decisiva ai nostri fini, stante la domanda di fondo che si pone nell’eventualità di uno scambio costituito dal trasferimento di un diritto immobiliare contro il trasferimento di criptovaluta.

Note

(1) Sul baratto quale precursore della moneta si sono intrattenuti gli economisti nei secoli. In effetti parrebbe che il denaro virtuale fondato su appostazioni contabili lo abbia funzionalmente preceduto: cfr. l’operazione di demistificazione e di approfondimento storico condotta in argomento da chi (D. GRAEBER, Debito, i primi 5.000 anni, Milano 2011, 27 ss.) ha rilevato come già la civiltà mesopotamica, fin da oltre il 3000 a.C. avesse sviluppato un complesso sistema di contabilizzazione basato sul valore attribuito a lingotti d’argento che venivano custoditi nei templi, mentre le merci (con particolare riferimento all’orzo) erano legati all’argento da un sistema di valorizzazione fisso. Per tale via era possibile che venissero regolati i saldi tra le controparti soltanto in un tempo determinato. Ciò premesso, con il termine «Denaro» utilizzato spesso quale sinonimo di «moneta», originariamente veniva designata una specifica moneta di dieci assi (denarius) e, anticamente, la titolazione dell’argento (un’oncia di fino era divisa in 12 denari e ciascun denaro in 24 grani). Dunque si può dire che, mentre «moneta» pare un termine più legato alla materialità di un «pezzo», tradizionalmente di metallo, che incorpora un valore di scambio, «denaro» appare una locuzione più comprensiva.

(2) R. PEEL cit. K. MARX, Zur kritik der politischen oekonomie, Duncker & Humblot, Berlino 1859, 49.

(3) L. VON MISES, The theory of money and credit, Yale University Press, New Haven 1953, cit. G. NORTH, Che cosa è il denaro, Massa 2010, 7 ss.

(4) L. VON MISES, L’azione umana, Torino 1959, 388 ss.

(5) Va dato atto come si fronteggino, a tal proposito, due opposti fronti: chi considera il fenomeno monetario come espressione pratica dello sviluppo economico (cfr. supra, nota 3 e 4) riferisce come la selezione del bene qualificabile come denaro sia scaturita dal concreto utilizzo di una determinata specie di beni in uno specifico contesto sociale. Per la c.d. teoria statalista, invece, è soltanto lo Stato a poter conferire ad una determinata moneta il valore di strumento di pagamento, sancendone il corso legale (cfr. F. CARBONETTI, La moneta. Diritto monetario, in Dizionari del diritto privato di Irti-Giacobbe, Milano 1987, 406, anche se, a parziale critica del pensiero dell’Autore, secondo il quale sarebbe attualmente dominante un movimento di rafforzamento della sovranità monetaria dello Stato, va piuttosto riferito di una dicotomia tra sistemi «a banca centrale» (il cui capitale è posseduto da entità private) e sistemi in cui il legame tra l’istituto di creazione della moneta e Stato possiede un differente carattere. In realtà le due impostazioni, più che contrapporsi, si completano l’una rispetto all’altra. Se infatti è vero che inizialmente è la prassi sociale a selezionare il bene destinato a diventare denaro, è altrettanto innegabile che è l’autorità statale che determina quale sia, tempo per tempo, l’entità monetaria destinata ad avere il valore legale di estinguere debiti pecuniari.

(6) Significativo, a questo riguardo, lo sviluppo del pensiero legato al «giusto prezzo»: cfr. T. D’AQUINO, Summa theologica, Le azioni umane, in particolare, ripreso da J. K. GALBRAITH, Storia dell’economia, Milano 1987, 36 ss.). Verso la fine del Duecento fu merito del francescano P. DI GIOVANNI OLIVI Il De emptionibus et venditionibus, de usuris, de restitutionibus, Roma 1980) mettere a fuoco come l’incremento del prezzo praticato dal mercante fosse giustificato dal lavoro connesso allo scambio, iniziando un percorso di emancipazione delle c.d. «usurae» rispetto al ghetto nel quale erano confinate dalla dottrina cristiana del tempo (C. PERROTTA, Paura dei beni, Milano 2008, 63).

(7) Anche se occorre riferire come il signoraggio (cioè l’aggio del signore, del principe) si introduce in questa dinamica come intenzionale divaricazione tra valore «intrinseco» della moneta (assunta la valenza relativa di tale termine, altrimenti destituito di significato se inteso come misuratore assoluto di valore, avulso da un parametro relazionale) e valore «facciale» della stessa. Per una migliore intelligenza di come l’allontanamento del valore intrinseco causato dalla diminuzione della quantità di metallo rispetto a quello nominale della moneta possa accompagnarsi al dissesto economico, appare paradigmatico lo studio della monetazione romana nell’arco temporale dalle origini al termine del periodo imperiale, cfr. G. PIZZAMIGLIO, Saggio cronologico, ossia storia della moneta romana dalla fondazione di Roma alla caduta dell’Impero d’occidente, Londra (ristampa) 2019. Né questi riferimenti paiano un semplice residuo del passato. Il 15 agosto 2021 ricorre il cinquantenario dalla sospensione «temporanea» della convertibilità del dollaro in oro secondo il cambio fisso di 35 dollari americani per oncia in esito alla decisione assunta dall’allora Presidente Nixon. Le turbolenze finanziarie e l’inflazione che ne derivarono (inflazione che venne domata soltanto nei primi anni 80 dall’allora Governatore della FED Paul Volcker mediante robusti innalzamenti dei tassi di interesse) hanno comunque condotto, in tale arco temporale, pur se non frequentemente ricordato, ad una perdita di valore del biglietto verde di circa il 98% rispetto a quello precedente la riferita decisione, la cui «temporaneità» permane, dopo mezzo secolo, anche ai nostri giorni.

(8) Si faccia attenzione a non confondere la moneta elettronica con la criptovaluta o valuta virtuale (di cui meglio infra), definita dalla dir. UE n. 843/2018 (c.d. «Quinta Direttiva Antiriciclaggio») come «rappresentazione di valore digitale che non è emessa o garantita da una banca centrale o da un ente pubblico, non è necessariamente legata a una valuta legalmente istituita, non possiede lo status giuridico di valuta o moneta, ma è accettata da persone fisiche e giuridiche come mezzo di scambio e può essere trasferita, memorizzata e scambiata elettronicamente». Il considerando 10 della predetta direttiva (espressamente precisa: «Le valute virtuali non dovrebbero essere confuse con la moneta elettronica quale definita all’articolo 2, punto 2, della dir. 2009/110/CE del Parlamento europeo e del consiglio, con il più ampio concetto di «fondi» di cui all’art. 4, p. 25, dir. UE n. 2366/2015 del Parlamento europeo e del consiglio, con il valore monetario utilizzato per eseguire operazioni di pagamento di cui all’art. 3, lett. k) e l), dir. UE n. 2366/2015, né con le valute di gioco che possono essere utilizzate esclusivamente all’interno di un determinato ambiente di gioco. Sebbene le valute virtuali possano essere spesso utilizzate come mezzo di pagamento, potrebbero essere usate anche per altri scopi e avere impiego più ampio, ad esempio come mezzo di scambio, di investimento, come prodotti di riserva di valore o essere utilizzate in casinò online. L’obiettivo della presente direttiva è coprire tutti i possibili usi delle valute virtuali.»

(9) Si consideri l’esperienza della Svezia, che ha sostituito il contante con carte di credito e di debito anche per le negoziazioni minori.

(10) La creazione di massa monetaria (la cui allocazione in circolo tramite le Banche commerciali avviene per il tramite dell’acquisto di titoli, per lo più di emissione governativa (ma non soltanto, essendo stati eletti al rango di «acquistabili» anche assets quali corporate bonds neppure contrassegnati da rating AAA), dipende da «variabili» che costituiscono l’attuazione, unitamente alla determinazione della struttura dei tassi di interesse, della politica monetaria di ciascuna Banca Centrale. A titolo esemplificativo può essere assunta la recente azione della FED che, da una normale allocazione di assets in bilancio di circa 800 miliardi di USD fino all’autunno del 2008, allo scopo di far fronte alla crisi causata dal crollo della Lehman Brother pervenne ad accumulare circa 4200 miliardi USD di titoli a fronte di una paritetica creazione di moneta fiat. Tale importo, dopo un leggero decremento (c.d. «tapering» intercorso tra il 2016 e il 2018), è «esplosa» a oltre 8200 miliardi USD in pochi mesi a far tempo dal febbraio 2020 fino ai giorni in cui vengono scritte queste righe: cfr. la eloquente rappresentazione grafica ufficiale in: https://www.federalreserve.gov/monetarypolicy/bst_recenttrends.htm (consultato il 12 luglio 2021).

(11) Il tutto fino all’attuale sistema della c.d. «moneta debito», concetto invero di difficile messa a fuoco, dal momento che risulterebbe conforme alla comune opinione (e forse anche al buon senso) ipotizzare che la moneta (svolgendo anche la funzione di riserva di valore) avesse a rappresentare sempre e costantemente un attivo e non già una passività. E invece le Banche Centrali, creando la moneta dal nulla e impiegandola conformemente a quanto già indicato nella nota che precede, non possono non iscrivere questa moneta di novella creazione nel passivo del loro bilancio, dal momento che all’attivo vanno iscritti gli assets acquistati con essa. Se dunque è vero che una Banca Centrale giammai «run out of money» è però pur sempre vero che i predetti assets, una volta venduti sul mercato, potrebbero non possedere un valore sufficiente a compensare l’equivalente spesa sostenuta per l’acquisto degli stessi, non permettendo conseguentemente che avesse luogo una chiusura della partita aperta con l’elisione di analogo importo al passivo del bilancio della Banca.

(12) Va chiarito come quanto esposto non possieda alcuna valenza se riferito ad altre criptovalute, fondate su regole assolutamente divergenti rispetto a quelle che disciplinano Bitcoin: così per Ethereum oppure per Iota (giusto per assumere in considerazione due protocolli tra i più noti, il primo legato principalmente alla contrattazione digitale, il secondo alla c.d. internet of the things). In entrambi i casi non viene in considerazione un protocollo analogo a quello di Bitcoin, la cui struttura a impegno energetico incrementale causata dal numero chiuso delle unità «minabili» possiede natura essenzialmente deflattiva.

(13) Al Bitcoin faremo riferimento non solo in relazione alla rilevanza economica assunta (la capitalizzazione dello stesso aveva raggiunto nella primavera del 2021 un trilione di USD, per poi ripiegare alquanto, stante l’accentuata volatilità), ma anche con riferimento alla problematicità della considerazione di molte tra le criptovalute presenti sul mercato (alcune migliaia). Cfr. App. Brescia 24 ottobre 2018 n. 207 che ha confermato la decisione del Giudice di primo grado: respinto il ricorso avverso il diniego del notaio che aveva rifiutato l‘iscrizione presso il registro delle imprese della deliberazione dell’assemblea di una società che aveva deliberato l’aumento del capitale a pagamento effettuato mediante conferimento in natura di una criptovaluta, a cagione dell’assenza di una piattaforma di scambio che consentisse di conferire alla stessa una valore suscettibile di essere sottoposto a stima ai sensi di legge.

(14) Nel senso della possibilità di qualificare il Bitcoin come moneta complementare, si veda G. ARCELLA, M. MANENTE, Le criptovalute e le loro contraddizioni: tra rischi di opacità e di eccessiva trasparenza in Notariato n. 1/2020, 23 ss., che fondano questa opinione sull’assenza di corso legale e l’utilizzo volontario quale strumento di pagamento. Pare tuttavia sfuggire il dato intrinseco di ogni moneta complementare: il fatto cioè che essa sia concepita come strumento di pagamento alternativo rispetto alla moneta avente corso legale nell’ambito di un determinato circuito, entro il quale viene convenzionalmente accettata allo scopo di gestire lo scambio di beni e/o servizi, quale eminente strumento contabile, salva la convertibilità secondo un rapporto costante di cambio con la valuta avente corso legale. Ne costituisce un esempio il «Wir» emesso dalla Banca omonima, fondata a Zurigo nel 1934 dagli imprenditori Werner Zimmermann e Paul Enz, per supplire alla carenza di moneta verificatasi dopo il crollo finanziario del 1929. Si tratta di un sistema indipendente di valuta complementare che circola tra le piccole e medie imprese elvetiche quale mero sistema contabile, consentendo compensazioni tra reciproci crediti a fronte della fornitura di beni e/o servizi. Sembrerebbe questa la qualificazione del Bitcoin secondo l’Autorità tedesca per la supervisione nel settore finanziario (BaFin: Bundesanstalt Fur Finanzdienstleistungaufsich), la quale nel 2013 ha riferito di esso come «unità di conto» sulla scorta di un accordo privato. Per il Bitcoin, come per altre criptovalute, questo elemento però fa assolutamente difetto: nessun circuito, nessuna convertibilità sulla scorta di valori predeterminati ma, al contrario, mero accordo tra due controparti contrattuali e enorme volatilità, ciò che dà luogo a fluttuazioni abnormi nella quotazione in ciascuna valuta legale.

(15) Congresso USA, Regulation of Bitcoin in Selected Jurisdictions, gennaio 2014, p.13.

(16) I concetti di “bene ” e di ” cosa” sono spesso utilizzati indifferentemente quali sinonimi, senza che si consideri che rappresentano concetti assai diversi, poiché il primo possiede una valenza di carattere giuridico, il secondo un significato di tipo naturalistico. “Cosa ” è infatti una parte di materia (solida, liquida o gassosa). Peraltro non ogni entità naturalisticamente qualificabile come cosa è un bene in senso giuridico. Inversamente non ogni bene giuridicamente tale si identifica in una cosa. Vediamo di verificare questi due asserti. Può essere considerata un bene solo la cosa che possa essere fonte di utilità e oggetto di appropriazione (PINO, Contributo alla teoria giuridica dei beni, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1948, 825.). Per questo motivo non sono beni l’aria aperta, l’acqua del mare (con l’eccezione della parte separata in modo da risultare di utilità es.: acqua in taniche, aria in bombole). L’art. 810 cod. civ. muove per l’appunto da questi presupposti precisando che “sono beni (soltanto) le cose che possono formare oggetto di diritti”, cioè quelle suscettibili di appropriazione e di utilizzo e che, perciò, possono avere un valore. Nel senso ristretto di cui all’art. 810 cod. civ. il bene è oggetto (diretto) dei soli diritti reali. Il medesimo può anche essere oggetto mediato (mediato in quanto oggetto diretto della prestazione, la quale tuttavia può consistere anche in una condotta non avente ad oggetto una cosa) dei diritti di credito, peraltro nelle sole obbligazioni di dare (ti devo cento euro). Se invece devo costruire una diga, l’obbligazione ha per oggetto la prestazione e quest’ultima ha a propria volta quale oggetto l’attività di costruzione della diga. Analogamente si può dire se devo eseguire una rappresentazione teatrale, la mia obbligazione consiste nel mero facere che corrisponde alla recitazione, senza in questo caso avere per oggetto un’attività che si concreti in seguito in una cosa (Analoghe considerazioni in SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Napoli 2002, 56). Ecco allora che si può affermare, come detto, che vi sono beni in senso giuridico (la prestazione di costruire, la prestazione della recitazione) che non consistono in cose. Tradizionalmente si distingue tra beni corporali ed incorporali. I primi sono quei beni che possono esser oggetto di percezione sensoriale o strumentale (energia elettrica, beni mobili ed immobili), i secondi sono creazioni astratte (marchio ed insegna, opere d’autore). Si veda PUGLIATTI, voce Beni: teoria generale, in Oggettività giuridica delle cose incorporali (a cura di Messinetti in Enc. Dir.) Milano 1970, 106 e SCOZZAFAVA, I beni e le forme giuridiche di appartenenza, Milano 1982, 357. Ovviamente deve essere distinto il supporto materiale che veicola il bene immateriale da quest’ultimo. Il diritto sul primo è qualcosa di diverso dal diritto che investe l’altro, come d’altronde un conto è il diritto di proprietà di un token e l’analogo diritto su quanto vi fosse memorizzato.

(17) Gioverebbe a questo proposito riflettere sulla distinzione tra una valutazione di fungibilità o di infungibilità «naturalistica» ed una infungibilità giuridica, in quanto imperniata sulla considerazione soggettiva delle parti. Sicuramente un Bitcoin, sotto il profilo informatico, è del tutto infungibile, essendo caratterizzato da una posizione «propria» nella blockchain, potendo altresì darsene disposizione in base a specifiche chiavi asimmetriche. Tuttavia appare evidente che, per colui che accetti Bitcoin quale strumento di pagamento, non conta assolutamente ricevere criptovaluta individuata in maniera specifica, perdendosene nella valutazione delle parti l’infungibilità informatica.

(18) Cfr. Corte di Giustizia Unione Europea, Sez. V, 22 ottobre 2015 n. C-264/2014. Secondo i fatti che generarono la controversia, un soggetto privato risultava titolare di un’attività di cambio esercitata con il supporto di una società di intermediazione, che operava la negoziazione di Bitcoin in cambio di valute tradizionali, ottenendo un profitto dalla differenza tra i prezzi di acquisto e di vendita applicati. Allo scopo di ottenere un chiarimento sugli aspetti fiscali, era stata rivolta apposita richiesta alla Commissione Tributaria svedese, la quale si era espressa ufficialmente a favore dell’esenzione di tale attività dal pagamento dell’Iva. L’Amministrazione finanziaria svedese, di contrario avviso, aveva interpellato la Corte di Giustizia circa l’interpretazione degli artt. 2, par. 1 e 135, par. 1, dir. 2006/112/CE per acclarare se l’attività in commento potesse considerarsi a titolo oneroso e beneficiare dell’esenzione fiscale contestata. Secondo la Corte la possibilità di inserire l’attività contestata tra le cessioni di beni doveva essere esclusa in quanto i Bitcoin non erano un «bene materiale» nel senso fatto proprio dall’art. 14 dir. cit.: la moneta virtuale, infatti, non trasferiva alcun diritto di proprietà e veniva utilizzata unicamente per il cambio fra vari mezzi di pagamento. La detta attività configurava, piuttosto, una prestazione di servizi a titolo oneroso ex art. 2, par. 1, lett. c, in quanto tra il titolare e gli utenti ricorreva una relazione diretta ed un rapporto giuridico sinallagmatico ove «il compenso ricevuto dal prestatore costituisca il controvalore effettivo del servizio prestato al beneficiario». In merito alla seconda questione pregiudiziale, la Corte comunitaria è arrivata a sostenere che solo il contenuto dell’art. 135, par. 1, lett. e, concernente «divise, banconote e monete con valore liberatorio», avrebbe potuto giustificare l’esclusione delle operazioni sui Bitcoin dal pagamento dell’Iva. Come diretta conseguenza, se la moneta virtuale viene accettata e utilizzata come mezzo di pagamento alternativo a quello legale a fronte di una somma pagata come differenza tra i prezzi di acquisto e vendita, le attività di cambio di Bitcoin in moneta tradizionale e viceversa, rientrano a pieno titolo tra le attività esenti dall’applicazione dell’Iva per le transazioni compiute all’interno del territorio europeo. Da qui, tuttavia, arguire nel senso che Bitcoin (ovvero qualsiasi altra criptovaluta) costituisca una «moneta» sia pure complementare, ne corre. Sul tema cfr. supra, nota 14. In via di sintesi si può concludere nel senso che il riferito intervento della Corte abbia avuto quale esito, più che altro, di mettere a fuoco che cosa il Bitcoin «non» sia, piuttosto che darne una accettabile definizione. Né miglior sorte arride al tentativo di fondare siffatto esito ermeneutico sulla scorta della Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate 2 settembre 2016 n. 72/E (di cui, amplius, infra, nota 19 che segue), la cui ratio è quella di semplicemente imporre la tassazione sulle plusvalenze realizzate in conseguenza della cessione di criptovalute.

(19) Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate 2 settembre 2016 n. 72/E. È stato rilevato che: «Il Bitcoin è una tipologia di «moneta virtuale» o meglio «criptovaluta», utilizzata come moneta alternativa a quella tradizionale avente corso legale emessa da un’autorità monetaria. La circolazione dei Bitcoin, quali mezzi di pagamento, si fonda sull’accettazione volontaria da parte degli operatori del mercato che, sulla base della fiducia, la ricevono come corrispettivo nello scambio di beni e servizi, riconoscendone, quindi, il valore di scambio indipendentemente da un obbligo di legge. Si tratta, pertanto, di un sistema decentralizzato, che utilizza una rete di soggetti paritari (peer to peer) non soggetto ad alcuna disciplina regolamentare specifica né ad una autorità centrale che ne governa la stabilità nella circolazione» (ris. cit.). Se ne trae la conclusione per cui, nel sistema Bitcoin, «l’irreperibilità delle parti effettive non deriva da una forma di protezione (in qualche modo reversibile o sospendibile) del dato, bensì da un anonimato intrinseco alla stessa tecnologia adottata. Ne deriva, pertanto, che la possibilità di un tracciamento, meramente informatico, nel senso appena accennato potrebbe essere del tutto ininfluente ai fini della normativa che ci occupa. Neppure l’autore del pagamento può infatti identificare il destinatario.» Il pensiero finale della risposta al quesito appare dubitativo: «Ad ogni modo, sulla base di quanto osservato e considerato che in fattispecie come quella prospettata si pone un’oggettiva impossibilità di adempiere ai summenzionati obblighi antiriciclaggio, si suggerisce una valutazione circa l’opportunità di procedere ad effettuare una segnalazione di operazione sospetta.»

(20) Secondo il quale «Il trattamento fiscale dell’utilizzo delle criptovalute opera in forza della natura delle operazioni poste in essere mediante detti valori (oltre che, naturalmente, in base alla natura dei soggetti utilizzatori e delle relative attività, imprenditoriali o meno), laddove (e nella misura in cui) detto utilizzo generi materia imponibile». Il TAR ha così fatto riferimento ad una concezione funzionale. La tassazione non riguarda il semplice possesso di valute virtuali, ma solo impiego. Ciò che è assoggettato a tassazione non è la moneta virtuale come mezzo finanziario in sé, ma l’utilizzo che se ne fa della stessa.

(21) Il principio nominalistico di cui all’art. 1277 cod. civ. consiste nella regola secondo la quale il denaro possiede una rilevanza giuridica autonoma rispetto agli altri beni, essendo connotato dal proprio valore di scambio, di misuratore dell’importanza economica degli altri beni. Così le obbligazioni pecuniarie si estinguono prestando una quantità di denaro (moneta avente corso legale nello Stato al tempo del pagamento) pari all’importo nominale previsto originariamente. Questa regola base ne implica altre: a) che un pagamento effettuato con moneta avente corso legale non può essere legittimamente rifiutato (c.d. principio liberatorio); b) che la moneta avente corso legale deve essere computata secondo gli importi nominalmente previsti (principio del valore nominale della valuta avente corso legale). Tutto ciò comporta l’irrilevanza dell’eventuale deprezzamento di valore della moneta in relazione ai pagamenti che dovessero essere effettuati con termine di adempimento differito.

(22) Quanto al pagamento tramite assegno circolare, il quale, come tale, è connotato da speciali garanzie circa l’esistenza della provvista, ad un primo orientamento che sembrava negare l’equiparabilità dello stesso al denaro contante (Cass., Sez. III, 10 giugno 2005 n. 12324) ha fatto seguito un parere più meditato. È stato così deciso che il debitore ben può adempiere anche per il tramite della consegna di assegno circolare, ma che il creditore ha la possibilità, per un motivo giustificato, di ricusare tale modalità (Cass., Sez. Unite, 18 dicembre 2007 n. 26617 cfr. anche Cass., Sez. III, 16 giugno 2011 n. 13186, che ha sottolineato come l’effetto liberatorio segua soltanto nel tempo in cui venga conseguita la concreta disponibilità giuridica della somma di denaro). Ci si è anche spinti più avanti, essendosi stabilito come il rifiuto da parte del creditore di accettare quale strumento di pagamento anche un assegno bancario, sia pure senza giustificato motivo, ben possa integrare condotta contraria alla buona fede e correttezza (Cass., Sez. Unite, 4 giugno 2010 n. 13658; Cass., Sez. III 10 giugno 2013 n. 14531). Questo orientamento pare tuttavia revocato in dubbio, essendosi rilevato che, in presenza di pagamento effettuato con assegno bancario, il giustificato motivo sarebbe in re ipsa, dal momento che non è garantita la sussistenza della provvista (Cass., Sez. II, 30 settembre 2014 n. 20643).

(23) Non solo nell’ordinamento italiano, ma in tutto il mondo. Va dato atto come nel mondo la situazione stia evolvendo rapidamente. Dopo alcuni approcci sperimentali (si pensi alla Svizzera ove alcune entità locali hanno aperto, sia pure cautamente, la possibilità di effettuare pagamenti con effetti legali in Bitcoin. Il Comune di Chiasso (Canton Ticino) dal 2018 accetta i pagamenti delle tasse locali sia pure limitatamente alle imposte per importo massimo 250 franchi. A Zug (Canton Zugo), si consente analogamente per la minor somma di 200 franchi. Quando dovesse constatarsi l’esistenza di una criptovaluta legale facente capo ad un Paese straniero, sarebbe sufficiente, facendo riferimento all’art. 1278 cod. civ., denominare l’obbligazione pecuniaria in tale valuta, introducendo così un pagamento con effetti legali, sia pure su base volontaria e convenzionale, anche nell’ordinamento italiano. Più di recente si stanno tuttavia sperimentando atteggiamenti di severa chiusura. In Cina nel maggio 2021 la National Internet Finance Association of China, la China Banking Association e la Payment and Clearing Association of China, che costituiscono i tre organi di maggiore rilevanza nel settore finanziario hanno dato l’annuncio del divieto ufficiale a tutti gli Istituti finanziari del Paese e alle società di digital trading di offrire ogni tipo di servizio correlato alle transazioni in criptovalute, anche se non costituisce un illecito detenerne. La libera utilizzazione non è pertanto consentita. Analoga decisione sarebbe al vaglio del parlamento in India. Anche la finanza islamica pare ripudiare le criptovalute. L’ente egiziano Dar Al Iftaa, il più prestigioso centro di formazione islamica del mondo sunnita, ha pubblicato un parere giuridico sul proprio sito ufficiale riguardante l’acquisto e la vendita di Bitcoin. Proibite le trattative in valuta elettronica, sia per acquistare che vendere. La circolazione delle valute Bitcoin e il loro trattamento attraverso l’acquisto, la vendita, il leasing e altro è legalmente vietata a causa dei loro effetti negativi sull’economia, della loro interruzione dell’equilibrio del mercato e del concetto di lavoro, nonché a causa della mancanza della protezione legale e di controllo finanziario.

(24) Non si può accogliere al riguardo, l’opinione di chi (G. ARCELLA, M. MANENTE, Le criptovalute e le loro contraddizioni, cit.), facendo leva sulla natura labile della distinzione tra permuta e vendita, tende a ricondurre entrambi i congegni negoziali ad un unico schema, vale a dire quello dello «scambio di qualcosa con qualcos’altro». Se il diritto implica il recepimento di precise categorie giuridiche, è giocoforza imperniare la differenza tra i due contratti nella considerazione formale della moneta avente corso legale. Essa costituisce l’unico mezzo per sostanziare quel «prezzo» che costituisce l’elemento cardine dell’attribuzione che il compratore deve dedurre nell’atto negoziale allo scopo di soddisfare l’obbligazione che gli incombe a fronte del trasferimento del diritto sul bene oggetto della compravendita (supra, par. 2). Invero il concetto stesso di moneta avente corso legale possiede un valore formale che discende dalla normativa vigente e che è fonte di precise qualificazioni giuridiche. Né si può far leva sul fatto che l’unica funzione del Bitcoin sia quella di costituire uno strumento di pagamento: nonostante si tratti della criptovaluta che esprime (attualmente) la maggior capitalizzazione, ne esistono altre la cui funzionalità risulta assolutamente eccedente (tra gli innumerevoli esempi, basta rammentare Ethereum, sul cui protocollo si fonda la predisposizione e il funzionamento dei c.d. smart contracts).

(25) Questo punto va adeguatamente ponderato. Parrebbe infatti che, pur riflettendo il pagamento ancora da eseguirsi una circostanza fattuale futura, come tale in un certo senso inattingibile da parte del notaio, esista un preciso onere di indicazione, quantomeno a livello programmatico, dei (futuri) strumenti di pagamento che renderebbe problematico una successiva variazione, soprattutto se «pensata» fin dal tempo dell’atto traslativo cui si riferisce l’obbligazione di pagamento a termine: cfr. CNN, Studio Antiriciclaggio n. 50-2013/B, Pagamenti ante 4 luglio 2006 e pagamenti dilazionati tra normativa fiscale e norme antiriciclaggio, approvato dalla Commissione Antiriciclaggio in data 24 gennaio 2013). Ancor più significativamente: Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate 2 settembre 2016 n. 53/E 20 maggio 2014, Indicazione analitica delle modalità di pagamento del corrispettivo nel caso di pagamenti rinviati, avente ad oggetto la «Indicazione analitica delle modalità di pagamento del corrispettivo nel caso di pagamenti rinviati ad un momento successivo rispetto al perfezionamento degli atti di cessione immobiliare – art. 35, comma 22, d.l. 4 luglio 2006 n. 223» la cui parte conclusiva testualmente recita: «Quanto sopra induce a ritenere che, in relazione ai pagamenti rinviati ad un momento successivo rispetto al perfezionamento degli atti di cessione di diritti immobiliari, l’obbligo di indicazione analitica delle modalità di pagamento del corrispettivo possa essere assolto fornendo in atto gli elementi utili alla identificazione, in termini di tempi, importi ed eventuali modalità di versamento, di quanto dovuto a saldo. Del resto, è nella piena facoltà dell’Amministrazione Finanziaria, nell’ambito dei poteri di controllo di competenza, di procedere comunque a verificare la coerenza tra le corrispondenti movimentazioni finanziarie, una volta manifestatesi, e i patti conclusi tra acquirente e venditore. In tali casi, l’indicazione nell’atto degli elementi relativi ai pagamenti futuri esclude che possa essere irrogata la sanzione amministrativa e la correlata sanzione impropria, ossia l’assoggettamento dell’atto alla procedura di accertamento di maggior valore ex articolo 52, primo comma, del TUR, con sostanziale disapplicazione del regime del ‘prezzo-valore’.»

(26) In questo senso si veda R. M. MORONE, Chiara Agosto, Nuove modalità di pagamento del prezzo: criptovalute e deposito dal notaio, in Il diritto immobiliare, Emiliano Russo, Torino 2019, 470 s.

(27) Situazione, questa, che sostanzierebbe un accordo novativo. Vi è discordanza in dottrina circa le differenze fra novazione oggettiva e datio in solutum: se alcuni Autori ritengono che, conformemente all’opinione prevalente, mentre la dazione in pagamento estingue il rapporto obbligatorio senza che ne sortisca l’instaurazione di uno ulteriore, l’effetto tipico della novazione determinerebbe, al contrario, l’insorgenza di un nuovo rapporto (RODOTÀ, voce Dazione in pagamento, op. cit., 736; GALGANO, Diritto civile e commerciale vol. II, Padova 1990, 44), altri hanno ricercato la distinzione tra le due figure piuttosto nell’esistenza dell’animus novandi, dall’accertamento del quale dipenderebbe l’ammissibilità di un negozio non novativo, bensì meramente modificativo dell’oggetto (ZACCARIA, La prestazione in luogo dell’adempimento fra novazione e negozio modificativo del rapporto, Milano 1987, 137 ss.). Vi è inoltre chi reputa che la novazione possieda una singolare efficacia di tipo estintivo-costitutivo, mentre la dazione in pagamento avrebbe soltanto efficacia solutoria, un effetto cioè che implica comunque la modificazione oggettiva dell’obbligazione (BRECCIA, Le obbligazioni, in Tratt. dir. priv. (a cura di) Iudica-Zatti, Milano 1991, 555).

(28) Questo è precisamente l’effetto della datio in solutum. l’effetto estintivo dell’obbligazione si verifica soltanto una volta che, con il consenso del creditore, il debitore abbia effettivamente eseguito la diversa prestazione. Il mero accordo sulla diversa prestazione da eseguire non estinguerebbe il diritto di credito, valendo semplicemente a precludere al creditore la legittima pretesa della prestazione originaria ed il correlativo rifiuto della diversa prestazione stabilita che pur gli fosse stata offerta.

(29) Essendosi stabilito che, al fine di discernere se un contratto traslativo della proprietà di un bene, per il quale la controprestazione fosse costituita, in parte da una cosa in natura e, in parte, da una somma di denaro, costituisca una compravendita o una permuta, una volta che si escluda la duplicità di negozi ovvero l’ipotesi del contratto con causa mista, occorre avere riguardo non già alla prevalenza del valore economico del bene in natura ovvero della somma di denaro, bensì alla comune volontà delle parti, ricostruendo gli interessi comuni e personali che le parti avevano inteso regolare con il negozio ed accertare se i contraenti avessero voluto cedere un bene contro una somma di denaro, commutando una parte di essa, per ragioni di opportunità, con un altro bene, ovvero avessero concordato lo scambio di beni in natura, ricorrendo all’integrazione in denaro soltanto per colmare la differenza di valore tra i beni stessi.

(30) Come ritiene parte della dottrina: GASPERONI, Collegamento negoziale e connessione fra negozi, in Riv. dir. comm., 1955, 359 ss. e SACCO-DE NOVA, Il contratto, in Trattato di dir. priv. (dir. da) Rescigno, Vol. X, Torino 1995, 465 ss..

(31) Come sostiene RAPPAZZO, I contratti collegati, Milano 1998, 13.

(32) Cfr. Cass., Sez. I, 25 agosto 1998 n. 8410; Cass., Sez. I, 9 aprile 1983 n. 2520; Cass., Sez. III, 6 luglio 1978 n. 3360.

(33) Si pensi alla pluralità di cessioni di rami di azienda posti in essere allo scopo di evitare l’applicazione della norma di cui all’art. 2112 cod. civ. (cfr. Cass. Civ. Sez. Lavoro, 4010/1998). La stessa cosa si può dire della serie di vendite poste in essere al fine di far pervenire la proprietà di un bene ad un soggetto, violando un divieto di legge (artt. 599, 1471 cod. civ.).

(34) D. MINUSSI, Il contratto Tomo I, Elementi essenziali ed accidentali, Napoli 2007, 321. Si tratta di una tesi che trova nelle intuizioni di BIANCA, Diritto civile Vol. III, Milano 2000, 457 (il quale identifica una causa parziale dei singoli contratti ed una causa complessiva dell’intera operazione) e di RAPPAZZO, cit., 38 (che ravvisa nel collegamento il fenomeno della “doppia causa”, l’una relativa a ciascun “fragmento” negoziale e l’altra che presiede all’intera operazione economica) una sua prima enunciazione, laddove detti Autori sottolineano la peculiare interconnessione causale che in concreto si pone tra le cause tipiche dei negozi posti in essere, ma che può essere più correttamente esplicitata una volta accolto il concetto di causa sintetica. L’aspetto causale tipico (astratto ed oggettivo), viene in concreto e da un punto di vista soggettivo plasmato dallo scopo perseguito dalle parti. Tuttavia non è che si dia una causa del singolo contratto ed una (super)causa intesa come elemento aggregante dell’intera operazione afferente al collegamento. Il nodo si può risolvere piuttosto nell’apprezzamento della corrispondenza tra la causa astratta (tipica) del singolo negozio avvinto nell’operazione complessa e la causa concreta sempre ad esso riferita. È precisamente quest’ultima che risulta in grado di assumere un peculiare atteggiamento, in concomitanza ed in correlazione con l’analogo elemento proprio di ciascuno degli atti negoziali implicato nell’operazione. Così ragionando è possibile intendere l’empirica enunciazione che si sintetizza nella locuzione simul stabunt, simul cadent nella più precisa regola del sindacato tra corrispondenza della causa concreta rispetto alla causa astratta (cioè al tipo). Quando questo confronto (che, si rammenta, per i negozi tipici, deve partire dalla causa in astratto per giungere a quella concreta) evidenzia una valutazione negativa dell’elemento causale (inesistenza, illiceità) l’interprete non potrebbe non trarne le conseguenze del caso, cioè a dire la nullità del singolo atto negoziale ciò che verrebbe per lo più a coinvolgere anche gli altri negozi, sempre sotto lo stesso profilo.

(35) Supra, cfr. note 18 e 24: CNN, Quesito n. 3-2018/B; Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate 2 settembre 2016 n. 72/E; CNN, Studio Antiriciclaggio n. 50-2013/B, Pagamenti ante 4 luglio 2006 e pagamenti dilazionati tra normativa fiscale e norme antiriciclaggio, approvato dalla Commissione Antiriciclaggio in data 24 gennaio 2013. Ancor più significativamente: Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate 20 maggio 2014 n. 53/E.

(36) LUMINOSO, I contratti tipici e atipici, Milano 1995, 191 ss..

(37) Anche se occorre tener conto come il concetto di «diritto» non vada confuso con quello di «bene». Solo i beni sono oggetto di «diritti», mentre questi ultimi non possono essere a propria volta esserne oggetto. Ciò anche se potrebbe sembrare che certi diritti abbiano come oggetto altri diritti. Si pensi all’ipoteca: ai sensi dell’art. 2810 cod. civ. essa potrebbe avere ad oggetto il diritto d’usufrutto, di superficie o d’enfiteusi. In ogni caso va però osservato come “ipoteca della cosa” e “ipoteca dell’usufrutto” siano termini che evocano entrambi diritti sul bene e non diritti il primo sul bene ed il secondo su un diritto. Comunque l’oggetto dell’ipoteca è, infatti, la cosa: non l’usufrutto, la superficie, l’enfiteusi. Con espressioni quali “proprietà dell’usufrutto” o “proprietà di un credito” si vuol semplicemente intendere titolarità del diritto di usufrutto o titolarità del diritto di credito. Più problematica è la figura dell’usufrutto del credito di cui all’art. 1000 cod. civ. Secondo un’opinione si tratterebbe, nonostante la terminologia adoperata (usufrutto), di un diritto avente natura obbligatoria. In effetti il nodo consiste nella natura dell’oggetto del diritto, vale a dire il credito. Esso infatti non si sostanzia in una cosa materiale, suscettibile di essere oggetto di un diritto reale, consistendo piuttosto in una situazione giuridica soggettiva attiva di semplice pretesa del creditore a che il debitore tenga una specifica condotta (adempimento). A ciò non può che seguire l’impossibilità di poter parlare di caratteristiche quali immediatezza ed inerenza (con particolare riferimento all’inerenza passiva, prescindendo da aspetti, quali l’incorporazione del credito in un titolo, ciò che conduce all’apprezzamento di autonome leggi di circolazione del credito cartolarizzato). L’usufrutto relativo al credito configurerebbe un caso di diritto avente ad oggetto un altro diritto, ciò che viene in via teorica per lo più negato. Sulle varie tesi si vedano le risalenti opinioni di CICU, Diritto civile. Dell’usufrutto (lezioni dell’anno acc. 1924-1925), Bologna 1925, 32; BIONDI, voce Cosa corporale ed incorporale (diritto civile), in N.mo Dig. it., 1016; BIANCA, Diritto civile vol. VI, Milano 1999, 613 ss.; BIGLIAZZI GERI-BRECCIA-BUSMELLI-NATOLI, Istituzioni di diritto civile, Genova 1980, 220; FERRARA, L’usufrutto dei crediti nel diritto civile italiano, Torino 1905, 52 ss..

(38) Peculiare ed esclusiva, con tutta probabilità, per quanto attiene al Bitcoin, non potendosi tuttavia escludere ulteriori molteplici funzionalità per quanto attiene ad altre specie di criptovaluta.

(39) Si veda sul punto CNN, Quesito n. 3-2018/B, Antiriciclaggio, compravendita di immobile, pagamento del prezzo in Bitcoin, che fa ampio riferimento di quanto emerso dalla pronunzia della Corte di Giustizia Europea, Sez. V 22 ottobre 2015 n. C-264/14, cit. supra, par. 2) nonché dalle successive osservazioni ritraibili dalla Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate (Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate 2 settembre 2016 n. 72/E, parimenti supra, par. 2). In particolare è stato affermato che le «operazioni relative a valute non tradizionali, vale a dire diverse dalle monete con valore liberatorio in uno o più paesi, costituiscono operazioni finanziarie in quanto tali valute siano state accettate dalle parti di una transazione quale mezzo di pagamento alternativo ai mezzi di pagamento legali e non abbiano altre finalità oltre a quella di un mezzo di pagamento» e che «la valuta virtuale a flusso bidirezionale «Bitcoin», che sarà cambiata contro valute tradizionali nel contesto di operazioni di cambio, non può essere qualificata come «bene materiale» ai sensi dell’articolo 14 della direttiva IVA, dato che (…) questa valuta virtuale non ha altre finalità oltre a quella di un mezzo di pagamento».

(40) È ben vero che il legislatore talvolta si è preoccupato di evitare facili frodi: così l’art. 38, l. 27 luglio 1978 n. 392, dopo aver attribuito al conduttore di immobile urbano il diritto di prelazione per l’ipotesi in cui il locatore intendesse trasferire a titolo oneroso l’immobile locato, impone a quest’ultimo l’obbligo di indicare nella comunicazione di voler procedere all’alienazione del bene «in ogni caso» l’entità del corrispettivo in denaro, con la conseguenza che la prelazione potrà operare anche in presenza di una permuta, sulla scorta del meccanismo di sostituzione del valore del bene espresso in moneta. Altrettanto potrebbe dirsi per la prelazione in materia di beni culturali: l’art. 60, comma 2, d.lgs. 22 gennaio 2004 n. 42 prescrive infatti l’assoggettamento alla disciplina della notifica anche nel caso della permuta o della datio in solutum, ipotesi in cui «il valore economico è determinato d’ufficio dal soggetto che procede alla prelazione…».

(41) Cfr. supra, nota 17, circa la soltanto apparente infungibilità del singolo Bitcoin, una infungibilità soltanto «informatica», ma non certo tale per la considerazione delle parti.

(42) D. MINUSSI, La compravendita e la permuta, Napoli 2003, 387. Si è reputato di qualificare come permuta e non come vendita lo scambio fra due monete, anche se tuttora in circolazione, quando dalle parti siano state considerate per il loro valore intrinseco (si pensi all’epoca in cui circolavano le cinquecento lire di argento) ovvero lo scambio di moneta di tagli grossi con quella di tagli piccoli (Luminoso, I contratti tipici ed atipici, in Tratt. di dir.priv. (a cura di) Iudica-Zatti, Milano 1995, 192). A prima vista potrebbe ritenersi permuta anche lo scambio fra una cosa e titoli di credito (ti pago questo appartamento con una cambiale di cento milioni, con un titolo obbligazionario emesso dalla Repubblica Ceca). Per il tramite di detti titoli, in sostanza, si trasferisce la titolarità di un diritto di credito, ciò che potrebbe rientrare fra gli “altri diritti” menzionati dall’art. 1552 cod. civ.. In effetti, però, perlomeno alcuni titoli di credito (assegno circolare, vaglia bancario assegno bancario, ecc.) hanno una funzione surrogatoria della moneta, altri (titoli obbligazionari, cambiali) sono connotati da una quotazione che riflette l’affidabilità del debitore (RUBINO, La compravendita, in Tratt. di dir.civ. e comm. vol. XXIII (dir. da) Cicu-Messineo, Milano 1971, 239 e BIANCA, La vendita e la permuta, in Tratt. di dir.civ. it. (dir. da) Vassalli, Torino 1972, 1144).

(43) Ma non soltanto: cosa riferire dell’ipotesi in cui il corrispettivo della alienazione del diritto sul bene consistesse in monete o lingotti d’oro, d’argento, di platino, di palladio? Questo soltanto per citare i metalli preziosi, ma il discorso potrebbe applicarsi anche a commodities come il rame, il legname da costruzione, la pancetta di maiale, giusto per citarne alcune regolarmente quotate.

(44) Si veda sul punto la ricostruzione del LUMINOSO, cit., 193, che cita la divergenza tra l’opinione di chi nel passato, allo scopo di discernere tra vendita e permuta, proponeva il criterio soggettivo della considerazione di quale fosse l’oggetto preminente della contrattazione e quella di coloro che, al contrario, si basavano su un criterio oggettivo, finendo con un tertium genus (contratto misto).

(45) Nel tempo precedente l’entrata in vigore della c.d. legge «Bersani» la dichiarazione resa in atto dalle parti non avrebbe potuto sortire alcuna efficacia fidefacente: cfr. Cass., Sez. III, 27 novembre 2014 n. 25213.

(46) Questo implica che le parti debbano dichiarare in maniera specifica gli estremi degli strumenti di pagamento (assegni circolari, assegni bancari, bonifici) per il cui tramite il prezzo viene versato all’alienante, fermo il divieto di utilizzo di denaro contante (infra, nota 48).

(47) L’obbligo di tracciare gli strumenti di pagamento è stato successivamente esteso ad ambiti ulteriori rispetto a quelli relativi alle negoziazioni immobiliari. Con l’art. 3, l. 13 agosto 2010 n. 136 (oggetto di successiva modifica per effetto del d.l. 12 novembre 2010 n. 187 convertito in legge con modificazioni dall’art. 1, comma 1, l. 17 dicembre 2010 n. 217) esso è stato esteso alla filiera degli appaltatori e subappaltatori nonché ai concessionari di finanziamenti pubblici. Notevoli, in particolare, le prescrizioni istitutive di nullità testuali del contratto di appalto per l’ipotesi del mancato inserimento della clausola afferente la tracciabilità. Con la l. 9 agosto 2013 n. 99 (che ha convertito con modificazioni il d.l. 28 giugno 2013 n. 76) è stato modificato l’art. 2463 cod. civ. che, in tema di costituzione di società a responsabilità limitata, ora prescrive non soltanto che i versamenti eseguiti dai soci debbano essere eseguiti nelle mani dell’organo amministrativo (e non più effettuati presso un istituto di credito), ma anche che «i mezzi di pagamento sono indicati nell’atto». Dal complesso e variegato quadro normativo di cui sopra scaturisce una vera e propria «ragnatela» di disposizioni, il cui fine ultimo appare da un lato l’enorme restrizione al legittimo utilizzo del denaro contante quale mezzo di adempimento dell’obbligazione pecuniaria, dall’altro l’instaurazione di un rigido controllo dei percorsi che il denaro «dematerializzato» compie per passare da una mano all’altra per svolgere la propria funzione di strumento di pagamento. Il tutto «condito» da un cospicuo, articolato, non sempre coerente sistema sanzionatorio.

(48) Circa l’aspetto quantitativo delle limitazioni all’utilizzo del denaro contante, va riferito come si siano variamente succedute plurime disposizioni normative che hanno introdotto, sia pure in maniera ondivaga e contraddittoria, importi massimi via via più stringenti. Dal 1° gennaio 2016 è fatto divieto di utilizzo di denaro contante (o di titoli al portatore) per procedere a pagamenti di importo pari o superiore ad euro 3.000 (art. 1, comma 898, l. 28 dicembre 2015 n. 208 c.d. «legge di stabilità 2016»). Resta il limite di euro 999,99 per l’emissione di assegni senza la clausola di non trasferibilità. Per il servizio di rimessa di denaro di cui all’art. 1, comma 1, lett. b, num. 6, d.lgs. 27 gennaio 2010 n. 11, la soglia è di euro 1.000 (c.d. money trasfer). Per effetto del d.l. n. 124/2019, a far tempo dal 1° luglio 2020 il limite generale di ammissibilità per i pagamenti in contanti è stato portato ad euro 1999,99. Da notare, inoltre, come, per effetto della modificazione introdotta dal d.lgs. 25 settembre 2009 n. 151, «il trasferimento è vietato anche quando è effettuato con più pagamenti inferiori alla soglia che appaiono artificiosamente frazionati». Per di più occorre rilevare che il criterio del cumulo della pluralità delle operazioni di pagamento è stato ritenuto applicabile (cfr. Cass., Sez. II, 22 giugno 2010 n. 15103) addirittura anche alla normativa nel suo testo originario.

(49) La l. 5 luglio 1991 n. 197 (la quale ha attuato la conversione in legge del d.l. 3 maggio 1991 n. 143), oggetto di numerose modificazioni ed integrazioni (cfr., tra le altre, il d.lgs. 20 febbraio 2004 n. 56), ha introdotto alcune regole volte a contrastare il fenomeno del c.d. riciclaggio di denaro «sporco» (vale a dire costituente il frutto o il provento di reati, con la precisazione che il reato presupposto rende rilevanti le condotte intese ad ostacolare il tracciamento dei flussi finanziari: cfr. Cass. Pen., Sez. II, 13 marzo 2015 n. 10746). La materia è stata oggetto di novellazione per effetto dell’entrata in vigore, a far tempo dal 30 aprile 2008, del d.lgs. 21 novembre 2007 n. 231, emanato in attuazione della dir. 26 ottobre 2005 n. 2005/60/CE. Le violazioni dei relativi obblighi sono sanzionate amministrativamente e, nei casi più gravi, anche penalmente (ma non con la nullità dell’atto per violazione di norma imperativa: cfr. Cass., Sez. III, 15 gennaio 2020 n. 525). Il legislatore è successivamente intervenuto più volte con la l. 30 luglio 2010 n. 122 che ha convertito il d.l. 31 maggio 2010 n. 78, con la l. 22 dicembre 2011 n. 214 che, a propria volta, ha convertito il d.l. 6 dicembre 2011 n. 201. In tema di prescrizione relativa al reato de quo, si veda Cass. Pen., Sez. II, 7 gennaio 2011 n. 546. Da osservare come, con l. 15 dicembre 2014 n. 186, è stata introdotta una nuova fattispecie criminosa, il c.d. autoriciclaggio, sanzionato in maniera piuttosto incisiva dall’art. 648 ter cod. pen.. Vengono in esame quelle condotte per il cui tramite l’autore di un reato presupposto, allo scopo di dissimulare la provenienza illecita del denaro provento del reato, ponga in essere una qualsiasi operazione o complesso di operazioni idonee a nascondere, occultare o, comunque, ostacolare l’accertamento circa l’origine illecita di risorse finanziarie o patrimoniali. L’obbligo di segnalazione delle c.d. operazioni «sospette» già esteso ai professionisti organizzati in ordini (notai, avvocati, dottori commercialisti, etc.) è stato ulteriormente precisato nei dettagli (art. 41, d.lgs. 21 novembre 2007 n. 231; cfr. anche il D.M. Ministero della Giustizia 16 aprile 2010 intitolato «Relazione antiriciclaggio e black list»). È stato altresì previsto un sistema di segnalazioni idoneo a scongiurare l’eventualità che una singola operazione venga spezzata in più tranches allo scopo di evitare di incappare nei controlli di legge. A tal fine i singoli versamenti o pagamenti effettuati in un determinato arco temporale devono essere sottoposti a cumulo (artt. 42, 43, 44, d.lgs. n. 231/2007 cit.). Con il d.lgs. 4 ottobre 2019 n.125, attuativo della V Direttiva CE in tema di antiriciclaggio, è stata ulteriormente ampliata la platea dei destinatari degli obblighi di segnalazione delle c.d. operazioni «sospette» ed è stato disposto il divieto di emissione e utilizzo di prodotti di moneta elettronica anonimi (quali, ad esempio, proprio le criptovalute) La legge da ultimo citata ha infatti recepito il testo della dir. UE n. 843/2018 («Quinta Direttiva Antiriciclaggio»), la quale ha introdotto una definizione di valuta virtuale, costituita da una «rappresentazione di valore digitale che non è emessa o garantita da una banca centrale o da un ente pubblico, non è necessariamente legata a una valuta legalmente istituita, non possiede lo status giuridico di valuta o moneta, ma è accettata da persone fisiche e giuridiche come mezzo di scambio e può essere trasferita, memorizzata e scambiata elettronicamente».

(50) Si veda per una panoramica relativa a tale diffusa convinzione, G. J. SICIGNANO, Bitcoin e riciclaggio, Torino 2019, 109 ss.. Si veda anche G. ARCELLA, M. MANENTE, Le criptovalute e le loro contraddizioni, cit..

(51) Acquisto che, va osservato, ben potrebbe anche intervenire senza «scrivere» sul ledger della blockchain, semplicemente consegnando la chiave privata che assicura la disponibilità della criptovaluta. Ciò ha fatto concludere sul punto evocando un parallelismo con la risalente pratica di consegnare libretti di risparmio al portatore per effettuare pagamenti «in nero» (cfr. G. ARCELLA, M. MANENTE, Le criptovalute e le loro contraddizioni, cit.). Se si può concordare su tale osservazione, non altrettanto è a dirsi in relazione a quella afferente alla esclusione delle criptovalute dall’osservanza della normativa dettata in materia di limitazioni dell’uso del denaro contante, risultato che viene definito come «paradossale» e che vedrebbe «strumenti di pagamento aventi corso legale trattati perfino con «sfavore» rispetto a strumenti di pagamento sprovvisti di valore legale». Cosa dire allora dell’utilizzo di oro, di argento o altro bene come strumento di pagamento? Il punto è un altro: il concetto di moneta legale è formale. Ciò che non lo è, non è soggetto alla normativa che ne disciplina le regole. L’alternativa, invero illiberale, sarebbe quella di vietare (se non nella risibile misura massima prevista dalle attuali disposizioni limitative del contante) ogni permuta ove una delle attribuzioni avesse a sostanziarsi in una quantità di beni fungibili (dunque quale moneta convenzionale) nella rappresentazione delle parti.

(52) G. J. SICIGNANO, Bitcoin e riciclaggio, cit., 119 ss.: l’autore, in particolare, chiarisce come la mera conversione del denaro digitale in criptovaluta non soltanto non viene a sostanziare alcuna attività dissimulatoria (in quanto tutte le transazioni rimangono rigorosamente tracciate), ma addirittura si trasformerebbe in una sorta di «cavallo di Troia» per chi volesse riciclare denaro. L’identificabilità immodificabile di ciascun passaggio registrato sulla blockchain permetterebbe infatti in maniera agevole il disvelamento delle attività illecite. Il problema si pone invece per il denaro contante che fosse impiegato per l’acquisto di Bitcoin: se tale attività fosse effettuata tra privati, senza ricorrere ad un cambiavalute ufficiale, si potrebbe ben verificare quella sostituzione che costituisce l’essenza del riciclaggio e che consiste nella assenza di riconducibilità e di tracciabilità dell’operazione, destinata a rimanere anonima.

(53) G. J. SICIGNANO, Bitcoin e riciclaggio, cit., 139.

(54) Identificare, ma non disporre, spendere tale moneta, in relazione alla quale servirebbe poter disporre della chiave privata, come tale conosciuta soltanto dall’avente diritto.

(55) Ovviamente non già dal notaio, ma in sede di indagine giudiziaria. Al professionista competerà piuttosto, oltre alla riferita «identificazione» della chiave, svolgere un’indagine antiriciclaggio secondo i parametri e gli indici comunemente utilizzati, magari rafforzati dalla considerazione delle modalità (dichiarate dal cliente) in base alle quali chi paga usando la criptovaluta se ne sia assicurata la disponibilità.

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