Utilizzo delle criptovalute quale sistema di pagamento nelle negoziazioni

Utilizzo delle criptovalute quale sistema di pagamento nelle negoziazioni

di DANIELE MINUSSI. L’articolo è tratto dall’opera: “Criptoattività, Criptovalute E Bitcoin”, a cura di Stefano Capaccioli e coordinato da Stefano A. Cerrato, Remo M. Morone e Paolo Dal Checco

Enunciazione del problema (e di una possibile palingenesi)

Il punto di partenza di qualsiasi indagine sull’impiego di una criptovaluta come strumento di pagamento nelle contrattazioni più “rilevanti” (tali quelle che intervengono nell’ambito dell’attività contrattuale scritta che per lo più richiede l’assistenza notarile, come accade per la vendita immobiliare) (1) non può prescindere dalla preventiva disamina dei caratteri dell’obbligazione pecuniaria.
Diviene infatti cruciale il confronto tra le categorie legali codicistiche proprie di quest’ultima e le regole “liquide” peculiari delle criptovalute. Da tale comparazione l’interprete può tentare di ricavare un filo conduttore in grado di orientarne metodo e ricerca. Ecco perché l’indagine che segue partirà da questi aspetti, per poi proseguire nella messa a fuoco, sia pure in maniera sintetica, della vera e propria ragnatela normativa costituita dalle disposizioni “antiriciclaggio” (2). Non sarà irrilevante fare altresì attenzione all’obbligo, in un certo senso sussidiario a queste ultime, del “tracciamento” relativo agli strumenti di pagamento utilizzati per realizzare l’adempimento dell’obbligazione facente capo al compratore o comunque al soggetto che sia tenuto a corrispondere un corrispettivo in denaro a fronte di uno scambio economico.
Escluso che, allo stato attuale dell’evoluzione normativa, possa definirsi in chiave di “compravendita” lo scambio della proprietà di un bene contro la corresponsione al cedente di un importo in criptovaluta, stante l’assenza di corso legale della stessa (3), giungeremo alla definizione della permuta come strumento giuridico maggiormente funzionale alla compiuta descrizione dello schema negoziale concretamente praticabile. Una volta compiuta una rapida disamina degli ulteriori schemi contrattuali in forza dei quali una delle parti sia obbligata ad eseguire una prestazione consistente in una obbligazione pecuniaria e dell’effetto che sortisce la sostituzione dell’oggetto di essa con criptovaluta, verrà il tempo di “tirare le somme”. Solo allora sarà possibile cogliere la sorprendente prospettiva storica di un vero e proprio “ritorno al passato” tramite il futuro: la criptovaluta a svolgere il ruolo di “filo rosso” di questa storia, per una cospicua parte ancora da scrivere.

La tormentata ontologia dell’oggetto dell’obbligazione pecuniaria

Gli artt. 1277, 1278, 1279, 1280, 1281, 1282, 1283, 1284 cod. civ. assumono in considerazione le obbligazioni pecuniarie, vale a dire quelle che hanno ad oggetto una somma di denaro (4). Nell’attuale esperienza socio-economica i rapporti obbligatori che hanno ad oggetto una prestazione in danaro risultano del tutto prevalenti per importanza e per ricorrenza su tutti gli altri. Ma che cosa si intende per denaro? Giova a tal riguardo osservare che in un tempo non remoto la moneta possedeva un valore intrinseco (5). Ad una determinata quantità di denaro circolante corrispondeva infatti una correlata quantità di oro, il metallo prezioso universalmente ritenuto come garanzia della “copertura” di ogni emissione. È evidente che ciò costituisse una remora per ogni Stato in ordine ad una incontrollata creazione di moneta. Quando fosse stata incrementata la massa monetaria senza un corrispondente aumento delle riserve auree, l’evento si sarebbe automaticamente tradotto in una perdita di valore della moneta (6). Oggi, venuta meno ogni copertura rispetto ad un parametro prefissato, la moneta non possiede più valore legato ad un bene specifico, essendo costituita da semplici impulsi elettronici, pezzi di carta, di metallo o altro (sono in corso avanzato esperimenti relativi alla c.d. moneta elettronica (7), che si stanno già concretando in alcuni Paesi una accentuata dematerializzazione del denaro, fino alla vera e propria eliminazione del contante (8)) posti semplicemente in circolazione dalle autorità monetarie in ciascun Stato (9) quali sistemi di pagamento (c.d. denaro “fiat”, vale a dire “che sia, che si crei”), dunque quali misuratori convenzionali di valore. Può tuttavia dirsi che il denaro circolante viene accettato come mezzo di pagamento di qualsiasi merce o servizio non solo in base all’atto autoritativo che gli conferisce tale rango, ma anche in base alla fiducia che si ripone nella capacità dell’autorità emittente di salvaguardarne nel tempo il valore. Le fluttuazioni del mercato dei cambi tra le varie divise rappresenta efficacemente la variazione di questa fiducia nei rapporti commerciali tra i vari Paesi (rectius: aree monetarie), mentre l’analogo fenomeno all’interno di un Paese si evidenzia per il tramite della variazione dei prezzi (inflazione). Se il giorno 1 gennaio di un certo anno per acquistare un chilo di mele occorre un euro e dopo dodici mesi ne occorrono 1,05 (a parità di qualità e di quantità di prodotto) ciò significa che vi è stata all’interno del Paese una perdita di capacità di acquisto della moneta pari al 5% su base annua (per lo meno in relazione alle mele). Allo scopo di verificare l’andamento del fenomeno della variazione del valore della moneta l’ISTAT, che è istituzionalmente deputato nel nostro Paese alla rilevazione ed alla valutazione di dati statistici in genere, compie periodiche rilevazioni dei costi in relazione ad una serie composita di beni, ritenuta un campione rappresentativo (c.d. “paniere”). Ogni ordinamento giuridico fissa la propria unità monetaria secondo una misura legale a cui si riportano i singoli strumenti monetari circolanti. Conseguentemente quella moneta costituisce il tramite per procurarsi qualsiasi altra cosa o servizio, essendo il misuratore del valore di scambio di tutti i beni. La possibilità di disporre del denaro non presuppone necessariamente la materiale detenzione della moneta (carta o supporti metallici) che risulta funzionale alla circolazione di esso. Anzi, come si diceva, i tempi attuali sono contraddistinti da un sempre più elevato grado di dematerializzazione del denaro che avviene per il tramite dell’utilizzo di carte di credito, di pagamenti effettuati con bonifici elettronici fino al punto da (quasi) vietare il pagamento in contanti, cioè con lo strumento che originariamente era deputato proprio legalmente a svolgere tale funzione: cfr. infra, § successivo). Si può dire che la rilevanza dell’obbligazione pecuniaria quale obbligazione generica, vale a dire avente ad oggetto quantità omogenee di cose di genere e fungibili, si giustificasse nel passato proprio tenuto conto della consistenza materiale del suo oggetto (la moneta). Questa concezione valorizzava infatti il profilo materiale del denaro, non già quello, sicuramente prevalente, dell’aspetto funzionale di esso (quale strumento di pagamento e di misurazione del valore). Occorre però sottolineare che la disciplina delle obbligazioni generiche prevede regole assolutamente incompatibili rispetto alla natura delle obbligazioni pecuniarie. Si pensi al principio secondo il quale il debitore deve prestare “cose di qualità non inferiore alla media” (art. 1178 cod. civ.). Si ponga mente, ancora, alle disposizioni relative al passaggio del rischio per il perimento delle cose in conseguenza dell’acquisto della proprietà per effetto dell’individuazione (art. 1378 cod. civ.). Dette regole non possono riferirsi alla moneta, in rapporto alla quale, con certezza, non si pone né il problema del rischio del perimento del genere limitato (l’evento paragonabile è specifico e consiste nel porre fuori corso una moneta determinata) né quello della prestazione di cose di qualità non inferiore alla media. L’autonomia della disciplina dell’obbligazione pecuniaria rinviene una conferma nell’art. 1182, comma 3, cod. civ., norma che prevede quale luogo di adempimento, in difetto di un diverso accordo tra le parti, il domicilio del creditore (salvo il caso in cui il domicilio sia diverso “da quello che il creditore aveva quando è sorta l’obbligazione e ciò renda più gravosa l’obbligazione”). È proprio la caratteristica funzionale dell’obbligazione pecuniaria che la distingue dalle altre, con particolare riferimento a quelle generiche di cui si è appena riferito. Il principio cardine della specie di obbligazione in esame è infatti costituito dalla regola in base alla quale il debito pecuniario si estingue per il tramite di moneta avente corso legale nello Stato al tempo del pagamento (c.d. principio nominalistico: art. 1277 cod. civ. (10)). Ogni altro strumento di pagamento non può essere considerato quale succedaneo, a meno che in tale senso non si siano accordati creditore e debitore (tramite datio in solutum: art. 1197 cod. civ., infra, § 6). Quanto all’ assegno circolare, il quale, come tale, è connotato da speciali garanzie circa l’esistenza della provvista, ad un primo orientamento che sembrava negare l’equiparabilità dello stesso al denaro contante (Cass., 10 giugno 2005 n. 12324) ha fatto seguito un parere più meditato. È stato così deciso che il debitore ben può adempiere anche per il tramite della consegna di assegno circolare, ma che il creditore ha la possibilità, per un motivo giustificato, di ricusare tale modalità (Cass., Sez. Unite, 18 dicembre 2007 n. 26617; cfr. anche Cass., Sez. III, 16 giugno 2011 n. 13186, che ha sottolineato come l’effetto liberatorio segua soltanto nel tempo in cui venga conseguita la concreta disponibilità giuridica della somma di denaro). Ci si è anche spinti più avanti, essendosi stabilito come il rifiuto da parte del creditore di accettare quale strumento di pagamento anche un assegno bancario, sia pure senza giustificato motivo, ben possa integrare condotta contraria alla buona fede e correttezza (Cass., Sez. Unite, 4 giugno 2010 n. 13658; Cass., Sez. III, 10 giugno 2013 n. 14531). Questa opinione pare tuttavia revocata in dubbio, essendosi rilevato che, in presenza di pagamento effettuato con assegno bancario, il giustificato motivo sarebbe in re ipsa, dal momento che non è garantita la sussistenza della provvista (Cass., Sez. III, 30 settembre 2014 n. 20643). È il caso di segnalare come il tema in parola vada messo a confronto con la legislazione intesa a vietare l’esecuzione del pagamento in contanti per importi via via decrescenti nel tempo (infra, § successivo). Qualora il debito pecuniario sia espresso in moneta estera, il debitore può pagare di regola anche in moneta nazionale, al corso del cambio nel giorno della scadenza (art. 1278 cod. civ.). Peraltro, se le parti abbiano convenuto, per il tramite della clausola “effettivo” o altra equivalente, che il pagamento debba essere effettuato proprio nella moneta pattuita, il debitore è tenuto ad adempiere con la divisa straniera (art. 1279 cod. civ.). Una rilevanza assolutamente specifica ai nostri fini possiede inoltre l’art. 1280 cod. civ., la cui formulazione discende da quella dell’art. 1822 del previgente codice civile del 1865, norma che prevedeva il debito di restituzione di monete d’oro e d’argento, apportando una deroga al principio nominalistico. Poiché tali monete possiedono un valore intrinseco (sia pure nel senso sopra precisato: cfr. supra, nota 3), avendo, a differenza rispetto a quelle ordinarie, un valore reale corrispondente alla materia e non semplicemente nominale, era considerato possibile che le parti stabilissero che il pagamento avesse luogo legalmente tramite tale specie monetaria. A mente della norma attuale, il debitore deve pagare con la moneta avente valore intrinseco «quando così è stabilito dal titolo costitutivo del debito, sempreché la moneta avesse corso legale al tempo in cui l’obbligazione fu assunta». Si affretta tuttavia il comma 2 della stessa norma a precisare che, nel caso in cui la moneta non sia più reperibile o non abbia più corso (come attualmente) o ne è alterato il valore intrinseco («il pagamento si effettua con moneta corrente che rappresenti il valore intrinseco che la specie monetaria dovuta aveva al tempo in cui l’obbligazione fu assunta»). Perché va sottolineata la rilevanza di questa norma nonostante la sua assoluta desuetudine e pratica inattuazione? Perché essa costituisce l’indice astratto del fatto che anche i metalli preziosi, le monete auree e aventi un valore intrinseco potrebbero essere compresi tra gli strumenti di pagamento usati nelle transazioni commerciali di qualsiasi specie, tant’è che si può rammentare, in tale direzione, un raro e non certo recente riferimento giurisprudenziale esattamente nei termini (cfr. Tribunale Verbania 18 giugno 1982, secondo il quale «l’oro, sia sotto forma di monete sia di lingotti, deve ritenersi un mezzo di pagamento alla stregua delle valute aventi corso legale nei rispettivi stati») Ciò anche se, va sottolineato, la norma contiene una condizione precisa: che cioè la moneta avente valore intrinseco avesse corso legale al tempo in cui l’obbligazione è sorta. In conclusione, quello che conta ai fini della definizione di un certo bene come “moneta” ai sensi di legge, è dunque questo elemento: un atto autoritativo che gli conferisce la forza di strumento di pagamento legale (11).

Limiti al pagamento con denaro contante, l’obbligo di “tracciamento”

L’obbligazione pecuniaria deve essere adempiuta consegnando al creditore moneta avente corso legale nello Stato (art. 1277 cod. civ.). Nel passato questa regola, riferita al solo denaro contante, è stata reputata talmente importante da escludere che il debitore potesse essere considerato adempiente nell’ipotesi avesse utilizzato strumenti diversi, quali ad esempio assegni bancari (supra, § precedente). Via via, per il tramite di interventi normativi sempre più incisivi, si è fatto strada un principio tendenzialmente differente, tale, in particolare, da sollecitare l’interrogativo circa la perdurante vigenza della norma citata, quantomeno nell’interpretazione riferita. I limiti all’utilizzo di denaro in banconote (il “contante”) costituiscono un incentivo alla diffusione di altri più moderni (e controllabili) mezzi di pagamento, quali i trasferimenti di fondi via internet, i bonifici bancari, le carte di credito. La l. 5 luglio 1991 n. 197 (la quale ha attuato la conversione in legge del d.L. 3 maggio 1991 n. 143), oggetto di numerose modificazioni ed integrazioni (cfr., tra le altre, il d.Lgs. 20 febbraio 2004 n. 56), ha introdotto alcune regole volte a contrastare il fenomeno del c.d. riciclaggio di denaro “sporco” (vale a dire costituente il frutto o il provento di reati, con la precisazione che il reato presupposto rende rilevanti le condotte intese ad ostacolare il tracciamento dei flussi finanziari: cfr. Cass. Pen., Sez. II, 13 marzo 2015 n. 10746). La materia è stata oggetto di novellazione per effetto dell’entrata in vigore, a far tempo dal 30 aprile 2008, del d.Lgs. 21 novembre 2007 n. 231, emanato in attuazione della dir. UE 26 ottobre 2005 n. 2005/60/CE, successivamente modificato dal d.Lgs. 25 maggio 2017 n. 90 in attuazione della dir. UE 20 maggio 2015 n. 2015/849/CE. Le violazioni dei relativi obblighi sono sanzionate amministrativamente e, nei casi più gravi, anche penalmente (ma non con la nullità dell’atto per violazione di norma imperativa: cfr. Cass., Sez. III, 15 gennaio 2020 n. 525). Il legislatore è successivamente intervenuto più volte con la l. 30 luglio 2010 n. 122 che ha convertito il d.L. 31 maggio 2010 n. 78 e, da ultimo, con la l. 22 dicembre 2011 n. 214 che, a propria volta, ha convertito il d.L. 6 dicembre 2011 n. 201. In tema di prescrizione relativa al reato de quo, si veda Cass. Pen., Sez. II, 7 gennaio 2011 n. 546. Da osservare come, con l. 15 dicembre 2014 n. 186, è stata introdotta una nuova fattispecie criminosa, il c.d. autoriciclaggio, sanzionato in maniera piuttosto incisiva dall’art. 648 ter c.p.. Vengono in esame quelle condotte per il cui tramite l’autore di un reato presupposto, allo scopo di dissimulare la provenienza illecita del denaro provento del reato, ponga in essere una qualsiasi operazione o complesso di operazioni idonee a nascondere, occultare o, comunque, ostacolare l’accertamento circa l’origine illecita di risorse finanziarie o patrimoniali. Circa l’aspetto quantitativo delle limitazioni all’utilizzo del denaro contante, va riferito come si siano variamente succedute plurime disposizioni normative che hanno introdotto, sia pure in maniera ondivaga e contraddittoria, importi massimi via via più stringenti. Dal 1° gennaio 2016 è fatto divieto di utilizzo di denaro contante (o di titoli al portatore) per procedere a pagamenti di importo pari o superiore ad euro 3.000,00 (art. 1, comma 898, l. 28 dicembre 2015 n. 208 c.d. “legge di stabilità 2016”). Resta il limite di euro 999,99 per l’emissione di assegni senza la clausola di non trasferibilità. Per il servizio di rimessa di denaro di cui all’art. 1, comma 1, lett. b, n. 6, d.Lgs. 27 gennaio 2010 n. 11, la soglia è di euro 1.000,00 (c.d. money trasfer). Per effetto del d.L. 26 ottobre 2019 n. 124, convertito con la l. 19 dicembre 2019 n. 157, a far tempo dal 1 luglio 2020 il limite generale di ammissibilità per i pagamenti in contanti è stato portato ad euro 1999,99 e, con decorrenza 1 gennaio 2021, ad euro 999,99. Da notare, inoltre, come, per effetto della modificazione introdotta dal d.Lgs. 25 settembre 2009 n. 151, «il trasferimento è vietato anche quando è effettuato con più pagamenti inferiori alla soglia che appaiono artificiosamente frazionati». Per di più occorre rilevare che il criterio del cumulo della pluralità delle operazioni di pagamento è stato ritenuto applicabile (cfr. Cass., Sez. II, 22 giugno 2010 n. 15103) addirittura anche alla normativa nel suo testo originario. L’obbligo di segnalazione delle c.d. operazioni “sospette” già esteso ai professionisti organizzati in ordini (notai, avvocati, dottori commercialisti, etc.) è stato ulteriormente precisato nei dettagli (art. 41, d.Lgs. 21 novembre 2007 n. 231; cfr. anche il d.M. Ministero della Giustizia 16 aprile 2010 intitolato “Relazione antiriciclaggio e black list”). È stato altresì previsto un sistema di segnalazioni idoneo a scongiurare l’eventualità che una singola operazione venga spezzata in più tranches allo scopo di evitare di incappare nei controlli di legge. A tal fine i singoli versamenti o pagamenti effettuati in un determinato arco temporale devono essere sottoposti a cumulo (artt. 42, 43 e 44, d.Lgs. 21 novembre 2007 n. 231). Con il d.Lgs. 4 ottobre 2019 n. 125, attuativo della V Direttiva CE in tema di antiriciclaggio, è stata ulteriormente ampliata la platea dei destinatari degli obblighi di segnalazione delle c.d. operazioni “sospette” ed è stato disposto il divieto di emissione e utilizzo di prodotti di moneta elettronica anonimi (si pensi alle criptovalute, sulle quali infra, § successivo) (12). Occorre inoltre rammentare come, al di là dell’obbligo di utilizzare determinati mezzi di pagamento differenti dal denaro contante di cui si appena dato conto, sia stato posto, in riferimento alle negoziazioni immobiliari, un vero e proprio obbligo di “tracciare” gli strumenti di pagamento. L’art. 35, comma 22, del c.d. “Decreto Bersani” (d.L. 4 luglio 2006 n. 223, convertito dalla l. 4 agosto 2006 n. 248), successivamente modificato per effetto della legge “Finanziaria 2007” (l. 27 dicembre 2006 n. 296, ulteriormente rimaneggiato per effetto dell’art. 1, comma 177, l. 24 dicembre 2007 n. 244 (c.d. “Finanziaria 2008”) prevede infatti che, all’atto della cessione dell’immobile, anche se assoggettata ad IVA, le parti abbiano l’obbligo di rendere apposita dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà (13) recante l’indicazione analitica delle modalità di pagamento del corrispettivo in relazione ai pagamenti effettuati successivamente al 4 luglio 2006 (14). L’obbligo di tracciare gli strumenti di pagamento è stato successivamente esteso ad ambiti ulteriori rispetto a quelli relativi alle negoziazioni immobiliari. Con l’art. 3, L. 13 agosto 2010 n. 136 (oggetto di successiva modifica per effetto del d.L. 12 novembre 2010 n. 187 convertito in legge con modificazioni dall’art. 1, comma 1, L. 17 dicembre 2010 n. 217) esso è stato esteso alla filiera degli appaltatori e subappaltatori nonché ai concessionari di finanziamenti pubblici. Notevoli, in particolare, le prescrizioni istitutive di nullità testuali del contratto di appalto per l’ipotesi del mancato inserimento della clausola afferente la tracciabilità. Con la l. 9 agosto 2013 n. 99 (che ha convertito con modificazioni il d.L. 28 giugno 2013 n. 76) è stato modificato l’art. 2463 cod. civ. che, in tema di costituzione di società a responsabilità limitata, ora prescrive non soltanto che i versamenti eseguiti dai soci debbano essere eseguiti nelle mani dell’organo amministrativo (e non più effettuati presso un istituto di credito), ma anche che «i mezzi di pagamento sono indicati nell’atto». Dal complesso e variegato quadro normativo di cui sopra scaturisce una vera e propria “ragnatela” di disposizioni, il cui fine ultimo appare da un lato l’enorme restrizione al legittimo utilizzo del denaro contante quale mezzo di adempimento dell’obbligazione pecuniaria, dall’altro l’instaurazione di un rigido controllo dei percorsi che il denaro “dematerializzato” compie per passare da una mano all’altra per svolgere la propria funzione di strumento di pagamento. Il tutto “condito” da un cospicuo, articolato, non sempre coerente, sistema sanzionatorio.

Utilizzo della criptovaluta quale strumento di “pagamento” del prezzo di una vendita (immobiliare). Permuta o vendita?

Definita la vendita come quel contratto che ha per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa o il trasferimento di un altro diritto verso il corrispettivo di un prezzo (art. 1470 cod. civ.), chiarito altresì come per “prezzo” si intenda una somma di denaro, vale a dire di valuta avente corso legale nel luogo ove intercorre il pagamento, discendono conseguenze rilevanti ai fini della nostra indagine. Se, come appare attualmente evidente, nessuna criptovaluta possiede corso legale (quantomeno nell’ordinamento italiano) (15), la negoziazione avente ad oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa verso il trasferimento di una determinata quantità di criptovaluta non potrà (senza considerare gli obblighi di “tracciamento” (16)), pur essendo stata da più parti considerata tale ipotesi (17), essere considerata come “compravendita”. Parrebbe appropriata piuttosto una qualificazione in chiave di permuta, dal momento che l’art. 1552 cod. civ. la definisce come il contratto avente ad oggetto il reciproco trasferimento della proprietà di cose o di altri diritti da una parte all’altra (18). Come è stato icasticamente riferito (19) nella permuta sono presenti i caratteri peculiari della compravendita, «come contratto traslativo e sono presenti non ex uno latere, ma per così dire in maniera duplicata, sì che tutti i problemi (o quasi) della fisiologia e della patologia della vendita… implicati dall’alienazione del diritto… possono senz’altro estendersi, in via di principio, a questo contratto». Che una criptovaluta possa essere ricondotta alla nozione di “cosa o altro diritto” non parrebbe invero essere revocabile in dubbio. Utile può essere il riferimento alla distinzione tra “cosa” e “bene” (20). Rinviando per approfondimenti al lavoro già svolto aliunde (21), possiamo qui limitarci a riferire che, pur non potendosi definire una criptovaluta come una “cosa” intesa come oggetto materiale, pare appropriato riferirsi ad essa come ad un bene (immateriale) in senso giuridico (22) e, in ogni caso, potrebbe essere ricompresa nella comprensiva locuzione “altro diritto” di cui all’art. 1552 cod. civ., eliminando ogni eventuale perplessità circa l’idoneità della stessa a formare validamente oggetto di permuta. Certamente si tratterà di una specie assolutamente peculiare di permuta, dal momento che l’oggetto di una delle prestazioni (rectius: delle attribuzioni traslative) sarà straordinariamente simile al denaro, avendo in comune con esso la assoluta fungibilità e la caratteristica di rinvenire, quale unica utilità, quella di fungere da strumento di scambio. La criptovaluta infatti non è dotata di alcuna ulteriore funzione se non quella di svolgere da strumento di scambio o di pagamento, sia pure su base “volontaria” e non legale.

Una “quasi permuta” o una “quasi vendita”? Riscoperta di un concetto chiaroscurale

Le considerazioni appena svolte possiedono notevoli implicazioni circa la disciplina legale di siffatte negoziazioni. La scarna disciplina legale della permuta, formata soltanto da quattro articoli del codice civile, si fonda infatti sul rinvio recettizio operato dall’art. 1555 cod. civ., in forza del quale le norme stabilite per la vendita si applicano alla permuta, in quanto compatibili. Due sole le regole peculiari: in tema di evizione (art. 1553 cod. civ.) e di spese (art.1554 cod. civ.). Le considerazioni più sopra svolte, applicate ad una permuta che avesse ad oggetto ex uno latere criptovaluta, ben potrebbero risultare eversive rispetto a tale impianto. Sarebbe infatti legittimo l’interrogativo circa la possibilità, ordinariamente esclusa, di utilizzare tutte le regole dettate in tema di vendita che vedono il prezzo quale presupposto essenziale. Si pensi all’art. 1474 cod. civ., circa la mancanza di espressa determinazione del prezzo, all’art.1498 cod. civ., relativo alle modalità di pagamento dello stesso. Ancor più pregnanti le conseguenze in materia di evizione. L’art. 1553 cod. civ. infatti, ponendo fuori gioco la regola di cui all’art. 1483 cod. civ., dispone che, se il permutante ha sofferto l’evizione (totale) e non intende riavere la cosa data, ha diritto al valore della cosa evitta, secondo le norme proprie della vendita, salvo il risarcimento del danno. Come pretendere l’applicazione di questa regola all’atto permutativo in esame? È infatti di tutta evidenza come non tanto dovrebbe scattare il disposto di cui all’art. 1553 cod. civ., quanto quello, ben differente, di cui all’art. 1483 cod. civ.. La detta norma, richiamando l’art. 1479 cod. civ., conduce alla restituzione del “prezzo” pagato, che dovrebbe essere letta, nella fattispecie, come restituzione della “determinata quantità di criptovaluta” già trasferita quale corrispettivo della permuta. Non basta: la distinzione tra vendita e permuta si fa ancor più evanescente e chiaroscurale approfondendo l’argomento tradizionale della rilevanza della pratica distinzione tra i due schemi negoziali. Vi sono infatti alcuni istituti che rinvengono applicazione esclusiva alla vendita e non alla permuta. Si pensi alle ipotesi di prelazione legale, che postulano una piena fungibilità della prestazione. In tanto il prelazionario si potrebbe sostituire al contraente estraneo, in quanto possa farlo a parità di condizioni, cosa che è esclusa in radice nell’ipotesi della permuta, a cagione della infungibilità dell’attribuzione traslativa che ne costituisce l’oggetto. Così, ad esempio, nella prelazione agraria, che per l’appunto sarebbe posta fuori gioco dal congegno permutativo (cfr. art. 8, l. 26 maggio 1965 n. 590) (23). Le cose dette non possono non sollecitare l’interprete a voler approfondire il tema dell’elemento causale di vendita e permuta. Mentre la prima deduce asimmetricamente un’attribuzione traslativa contro una prestazione dedotta in una obbligazione (pecuniaria, in quanto avente ad oggetto una somma di denaro che costituisce il pagamento del prezzo), la permuta consiste piuttosto di una duplicità di attribuzioni traslative incrociate. Anche sotto il profilo funzionale la distinzione teorica tra i due schemi è netta. Nella permuta ciascuno dei contraenti acquista il bene offerto dall’altro per usarlo o per impiegarlo direttamente secondo l’utilità naturale. Nella vendita invece una attribuzione ha per oggetto un bene assunto per la sua utilità diretta, l’altra, (prestazione dell’acquirente) ha piuttosto ad oggetto la corresponsione di un prezzo, come tale assunto per quella speciale utilità indiretta e strumentale che è costituita dalla funzione misuratrice dei valori economici (24). Questa distinzione entra in crisi nel caso in cui al prezzo in denaro venga sostituita una criptovaluta. Come già messo a fuoco, infatti essa non possiede alcuna altra funzione se non quella di fungere da mezzo di scambio, come tale sommamente fungibile e non dotata di alcuna ulteriore utilità intrinseca, proprio come il denaro avente corso legale, dal quale sembrerebbe differire unicamente per la mancanza di tale “imprimatur” autoritativo. Sono per tale aspetto riproponibili, assolutamente potenziate, tutte quelle perplessità riferite in tempi passati a proposito del criterio discretivo di quelle negoziazioni che avessero quale oggetto lo scambio di un bene contro una somma di denaro (a conguaglio) e un ulteriore bene da esso diverso (25). Ma v’è di più: cosa dire infatti dell’interferenza tra gli schemi negoziali della vendita e della permuta e la datio in solutum di cui all’art. 1197 cod. civ.? Ancora una volta, il fulcro è costituito dalla messa a fuoco dell’elemento causale, come nitidamente statuito dalla Cassazione (cfr. Cass. Civ. Sez.II, 9088/2007) con una decisione che, per tale motivo, vale la pena di rammentare (26). Proprio il riferimento alla dazione di pagamento ne introduce, ai fini del nostro tema, la trattazione, ulteriore indispensabile tappa del nostro percorso.

Ricorso a strumenti “obliqui”. Datio in solutum: sistematica postuma aberrazione causale del congegno negoziale?

Secondo un’impostazione, non potendosi procedere al perfezionamento di una compravendita il cui prezzo fosse corrisposto in criptovaluta, a causa del riferito difetto di corso legale, il nodo problematico sarebbe sciolto ricorrendo ad una successiva dazione in pagamento (art.1197 cod. civ.). L’ipotesi dunque è che, al tempo della stipula di una compravendita (es. di un appartamento, perfezionata a ministero di notaio), la clausola relativa al pagamento del prezzo faccia rinvio ad un contesto cronologico differito. In via di sintesi si riporterà in atto che il prezzo pari ad euro (X) dovrà esser pagato entro e non oltre una certa data e con determinate modalità di pagamento (27). Successivamente, nel termine stabilito, si farebbe ricorso ad un accordo riflettente una c.d. datio in solutum. Tramite un atto ulteriore, verrebbe cioè attestato che il (già acquirente) Tizio, d’accordo con il (già venditore) Caio, invece che corrispondere a quest’ultimo il prezzo convenuto di euro (X), trasferisce l’importo pari a (Y) in criptovaluta. Per tale via l’intera negoziazione potrebbe dirsi finalmente conclusa, con l’esecuzione del “pagamento” finale, sia pure eseguito in maniera differente rispetto a quanto emergente dalla vendita. Ciò sarebbe praticabile perché, fermo restando che l’esatto adempimento presuppone l’esecuzione della prestazione contrattualmente prevista, il citato art. 1197 cod. civ. apre la strada alla possibilità che il creditore consenta una differente modalità di effettuazione della prestazione rispetto a quella originariamente programmata. In questa ipotesi l’effetto estintivo segue, come nell’esemplificazione pratica sopra prospettata, precisamente nel tempo dell’esecuzione concreta della prestazione diversa rispetto a quella dedotta in obbligazione. Nell’esemplificazione fatta, ciò avrebbe luogo nel momento della corresponsione di una determinata quantità di criptovaluta invece che del prezzo in moneta avente corso legale. Certamente questo procedimento funziona e corrisponde, considerato come operazione una tantum, ad uno schema legale perfettamente valido ed efficace. Questo esito non è invece scontato, tuttavia, in riferimento alla reiterazione della fattispecie programmaticamente concepita ab initio dalle parti nei termini riferiti. La dazione in pagamento, per essere veramente tale, postula infatti che vi sia un debitore tenuto ad eseguire una prestazione specifica e determinata. Costui non già si accorda con il creditore per variare semplicemente l’oggetto della prestazione né prima dell’instaurazione del rapporto obbligatorio, né successivamente (28), se non al momento stesso dell’esecuzione della diversa prestazione (29). Nella fattispecie oggetto della nostra indagine invece verrebbe posto in essere un vero e proprio procedimento, fin dall’inizio teleologicamente inteso a permettere che abbia luogo uno scambio tra il diritto (di proprietà) di un bene da un lato, contro la corresponsione di una certa quantità di criptovaluta dall’altro. Compravendita e susseguente dazione in pagamento non sarebbero altro se non altrettanti atti, avvinti da un collegamento negoziale finalizzato ad ottenere un risultato pratico diverso da quello palesato dall’elemento causale che sarebbe proprio di ciascun atto separatamente riguardato. La constatazione di una siffatta situazione potrebbe non essere senza conseguenze. Bisogna interrogarsi se si possa parlare, nella specie, di un elemento causale proprio della fattispecie complessa, cioè formata dalla pluralità dei negozi collegati (30), oppure se la causa propria di ciascuno di essi rimanga autonoma (31). In giurisprudenza le risposte, in generale, non sono univoche (32). Quando lo scopo concreto in funzione del quale vengono assemblati tra loro più congegni negoziali contrasta con norme imperative, l’ordinamento ha però a disposizione norme idonee ad affrontare il tema: si pensi all’art. 1344 cod. civ.. Non è certo infrequente che, per il tramite del collegamento negoziale, si dia infatti ingresso a fattispecie oblique di frode alla legge (Cass., Sez. III, 18 aprile 1996 n. 3661). Singoli atti, di per sé pienamente validi, isolatamente non riconducibili ad intenti fraudatori, una volta posti in collegamento tra di essi, possono palesare, al contrario, finalità contrastanti con la legge, ovvero elusive di specifiche disposizioni. Si pensi alla pluralità di cessioni di rami di azienda posti in essere allo scopo di evitare l’applicazione della norma di cui all’art. 2112 cod. civ. (cfr. Cass., Sez. Lavoro, 20 aprile 1998 n. 4010). La stessa cosa si può dire della serie di vendite poste in essere al fine di far pervenire la proprietà di un bene ad un soggetto, violando un divieto di legge (artt. 599, 1471 cod. civ.). Non basta: accogliendo una concezione “sintetica” della causa, intesa come verifica dinamica da parte dell’interprete della corrispondenza tra intento pratico dei contraenti e schema astrattamente corrispondente a quello tipologico del contratto prescelto, non soltanto è possibile, ma persino doveroso (non già allo scopo di un giudizio “obliquo” come quello introdotto dalla struttura critica di cui all’art. 1344 cod. civ., bensì al fine di una valutazione “diretta”, a mente dell’art. 1345 cod. civ.) apprezzare il reale intento dei contraenti, seguendo l’intero arco del percorso costituito dagli atti negoziali collegati (33). La rilevanza causale complessiva del collegamento sarà dunque quella di permettere un giudizio concreto sul senso globale dell’operazione, senza arrestarsi al frammento costituito dalla singola unità negoziale. Se, nell’esempio fatto più sopra, vengono ceduti più beni aziendali con atti successivi, lo scopo concreto che le parti si propongono non è quello di cedere ogni singolo cespite, bensì quello di cedere l’intera azienda, volendo in questo modo sfuggire alle prescrizioni di cui all’art. 2112 cod. civ.). La causa in concreto non corrisponde cioè a quella tipica: non vengono in considerazione vendite di beni separati, bensì la vendita dell’intera azienda. Riportando i termini del ragionamento a ciò di cui stiamo occupandoci, potrebbero prospettarsi due scenari alternativi, dalle conseguenze significativamente divergenti tra essi. In primis si potrebbe concludere che la vendita non sia effettivamente tale, bensì una permuta “camuffata”. Le conseguenze, benigne, si ridurrebbero a siffatta riqualificazione causale. È tuttavia ipotizzabile una ricostruzione alternativa, dagli esiti non altrettanto favorevoli, in considerazione di ulteriori apprezzamenti nonché delle concrete modalità di esecuzione e delle menzioni contenute nella vendita e nel successivo atto di dazione in pagamento (quando fosse stipulato per atto pubblico o per scrittura autenticata). Si faccia mente locale a quanto emerge dalle più sopra ricordate Risoluzioni dell’AE e Studi del Consiglio Nazionale del Notariato (34). Potrebbe infatti essere prospettabile, sulla scorta della ritenuta violazione della disciplina sul tracciamento degli strumenti di pagamento, sulla consapevole e volontaria non corrispondenza al vero delle dichiarazioni (giurate) effettuate dalle parti della vendita relative ai (futuri) pagamenti da eseguirsi (magari anche del fraudolento concorso dei professionisti coinvolti nella negoziazione a vario titolo) addirittura la nullità di entrambi gli atti, funzionalmente collegati, per frode alla legge, quando non addirittura per illiceità della causa. Il tutto a voler tacere dei profili di illiceità penale. Né potrebbero essere invocate le più miti conseguenze alle quali fa riferimento Cass., Sez. III, 15 gennaio 2020 n. 525, il cui esempio si rivela emblematico proprio in relazione al tema che stiamo affrontando. Nella fattispecie sottoposta all’attenzione della S.C. era stata domandata la dichiarazione di nullità del contratto di vendita di un immobile a causa della violazione della l. 21 novembre 2007 n. 231 in tema di antiriciclaggio, dal momento che era stato eseguito il pagamento del prezzo in contanti, nonostante la previsione (e il rilascio) espressa nell’atto di vendita di assegni bancari regolarmente intestati all’ordine della parte venditrice. Successivamente le parti sostenevano di aver raggiunto un accordo in virtù del quale i titoli sarebbero stati surrogati da denaro contante, stante la mancanza di un conto corrente di appoggio da parte dell’alienante. Si tratta, con tutta evidenza, di una ipotesi che rispecchia, fatte le debite “sostituzioni” (criptovaluta invece che denaro contante) esattamente il caso che ci occupa. V’è tuttavia una differenza fondamentale: la valenza episodica della fattispecie di cui alla pronunzia citata si distingue in maniera assoluta rispetto alla programmatica immutazione che avverrebbe in riferimento alla stipulazione di una datio in solutum susseguente alla vendita, la quale non potrebbe non implicare una sicura valutazione in chiave di falso ideologico della dichiarazione relativa al pagamento dilazionato fatta dalle parti in sede di compravendita, dichiarazione dunque scientemente non corrispondente al vero.

Ulteriori negoziazioni do ut facias. Invarianza del problema di fondo

Le cose dette possono fornire un’utile base per poter configurare dal punto di vista giuridico tutte quelle contrattazioni che vedano contrapporsi ad un pagamento (come tale da eseguirsi mediante moneta avente corso legale, in ipotesi da sostituirsi con criptovaluta) l’esecuzione di una prestazione. Vengono in considerazione contratti come appalto, somministrazione, locazione, affitto, mandato, commissione, spedizione. Sostituendo infatti la prestazione consistente nell’obbligazione pecuniaria con analoga obbligazione avente ad oggetto il trasferimento di criptovaluta non potrebbe non scaturirne una riqualificazione causale in chiave di altrettanti contratti innominati “do ut facias”. Il tema è stato affrontato in nel passato in via generale, ovviamente ad altri fini, facendosi ricorso alle possibilità garantite dall’autonomia negoziale. Ad essa sarebbe consentito (art. 1322 cod. civ.) fare ricorso a schemi atipici, anche accostando gli elementi propri di un tipo negoziale nominato con altri. Spesso la ricombinazione di essi da luogo a contratti c.d. “misti”. Con il termine si intende una fattispecie negoziale atipica che possiede elementi causali propri di più contratti tipici (Cass., Sez. I, 17 marzo 1978 n. 1346). Il problema è costituito dalla disciplina applicabile. Secondo la teoria della combinazione dovrebbero essere applicabili le norme relative a tutti i tipi negoziali riconducibili al negozio misto: la scelta andrebbe operata in concreto in relazione a ciascuno degli aspetti peculiari del contratto in questione. Secondo la teoria dell’assorbimento occorrerebbe invece valutare quale fosse in concreto la causa prevalente, per poi applicare analogicamente le sole norme concernenti il tipo negoziale al quale fosse stato assimilato il negozio misto (Cass., Sez. II, 5 aprile 1974 n. 2217; Cass., Sez. III, 20 dicembre 2005 n. 28233) (35). Importante sarebbe anche distinguere tra contratti collegati e contratti misti (Cass., Sez. III, 27 aprile 1995 n. 4645). Nel primo caso il collegamento negoziale non determinerebbe il venir meno dell’autonomia dei contratti, ferma restando la possibilità di valutare caso per caso quale fosse la portata e l’importanza del collegamento ai fini della ripercussione delle vicende di un contratto su quello collegato (come nella situazione già esaminata per il collegamento tra vendita e datio in solutum). Nel secondo caso si tratterebbe comunque di un unico strumento negoziale, sia pure contrassegnato da un elemento causale complesso. Niente (o quasi) di tutto ciò nelle ipotesi che stiamo indagando. Non si tratta infatti di combinare in un’unica negoziazione elementi ex se riconducibili a tipologie contrattuali differenti, bensì, più semplicemente (ma anche assai più problematicamente) di sostituire ad un contratto tipico qualsiasi (somministrazione, locazione, etc.) la controprestazione in denaro con quella attinente al pagamento in criptovaluta. Alla qualificazione in chiave di contratto atipico “do ut facias” non seguirebbe altra conseguenza se non applicare da un lato tutta la normativa propria di ciascuna specie negoziale, mentre dall’altro lato la disciplina tipica dell’obbligazione pecuniaria dovrebbe subire una sostituzione o quantomeno un adattamento. In mancanza di una legge “positiva” propria di una monetazione “privata”, le regole non potrebbero essere ricavate diversamente se non in via convenzionale o interpretativa. La soluzione potrebbe tuttavia palesarsi più agevole del previsto: cosa mai impedirebbe, infatti, che le parti avessero a recepire (integralmente o anche soltanto in parte; in un singolo contratto o con un accordo-quadro) la normativa specificamente dettata per le obbligazioni pecuniarie, sia pure con l’ovvia esclusione dell’artt. 1277 cod. civ. e con l’adattamento specifico delle altre regole?

La circolarità storica: il ritorno ad uno scambio di “lavoro” infungibile contro energia fungibile?

Chi tra qualche anno dovesse (ancora) sfogliare queste pagine, probabilmente potrebbe avvertire la stessa distanza tra il mondo per lui attuale e quello qui riflesso che oggi proviamo rileggendo gli scritti antecedenti l’epoca delle codificazioni settecentesche. L’inerzia degli istituti giuridici rispetto alle esigenze del reale non è mai stata così evidente come in questi tempi. Il tumultuoso irrompere di nuove tecnologie sovverte istituti consolidati e sfida l’interprete e il legislatore a rinvenire strumenti nuovi per disciplinare esigenze antiche, che però assumono una dimensione nuova. Decifrarle e porle in pratica è la sfida che il giurista non può non raccogliere: né si pensi alla sua inadeguatezza. Cogliere il senso delle cose è spesso frutto di riflessioni che hanno a che fare più con la dimensione filosofica che con approcci esclusivamente tecnici o, peggio, tecnocratici e disumanizzanti. Forse di tutta la breve analisi che qui si è tentato di condurre qualcosa potrà rimanere. Si può scommettere che questo “qualcosa” possa avere a che fare con la ricerca secolare di ciò che sta alla base del valore attribuito al denaro ed al suo corso forzoso, avente fonte cioè in un atto autoritativo che impone a tutti i consociati di uno specifico ordinamento giuridico di accettarlo come strumento di pagamento. In fondo i termini materiali del baratto rappresentavano pur sempre il frutto del lavoro dell’uomo e delle energie impiegate per la produzione di ciò che ne costituiva l’oggetto. La successiva evoluzione ha visto lo sviluppo delle modalità di scambio tramite l’utilizzo dello strumento intermedio costituito dal denaro sotto forma di metalli, ancora una volta ancorato al concetto intrinseco di energia, quella cioè necessaria per strapparli alle viscere della terra e trasformarli in porzioni agevolmente trasferibili. L’emancipazione da questo sistema in un primo tempo per mezzo di cartulae rappresentative di ciò che era troppo pesante da trasportare, successivamente per mezzo della completa rescissione di ogni rapporto con un valore sottostante (36), fino a giungere alla creazione di una illimitata massa monetaria potrebbe rinvenire la propria nemesi con l’avvento delle criptovalute (37). Quando infatti si riflettesse sul fatto che ad una illimitata trasportabilità corrisponde nell’unità di conto la concentrazione di uno specifico impiego di energia (nel caso del Bitcoin), potrebbe pervenirsi alla conclusione di come, per tale via, il percorso del denaro futuro sarebbe finalmente ritornato al passato. Un passato nel quale il denaro, per essere tale, doveva necessariamente incorporare lavoro ed energia per poter comprare, sia pure sotto diversa forma, altrettanto lavoro ed energia.

Note

(1) Si intendono pertanto escluse dal perimetro della presente indagine tutte quelle negoziazioni minute della vita quotidiana che si attuano per lo più per il tramite di comportamenti concludenti (acquisto di beni o servizi tramite apparati automatici, biglietterie e distributori) ovvero verbalmente e senza speciali formalismi.

(2) Per un approfondimento sul tema, si veda, in questo Volume infra, Sezione IV, Diritto penale e processuale (F. DI VIZIO, Bitcoin e riciclaggio).

(3) Non tragga in inganno la disciplina emanata per motivazioni di carattere fiscale e tendente all’equiparazione delle criptovalute a divise straniere aventi corso legale. Infatti l’obbligo dichiarativo nel quadro RW da allegarsi al modello Unico è funzionale alla corresponsione delle imposte sulle eventuali plusvalenze maturate in seguito alla cessione di tali assets verso denaro avente corso legale (cfr. Agenzia delle Entrate, Risoluzione n. 72/E, 2 settembre 2016 e Agenzia delle Entrate, Interpello n. 14, ottobre 2018). Il principio è stato ribadito da una recente pronuncia (Tar Lazio, 27 gennaio 2020 n. 1077 che ha confermato il contenuto delle istruzioni dell’AE (Provv. Dir. 30 gennaio 2019).

(4) “Denaro” oggi è spesso sinonimo di “moneta”, ma originariamente designava una specifica moneta di dieci assi (denarius) e, anticamente, la titolazione dell’argento (un’oncia di fino era divisa in 12 denari e ciascun denaro in 24 grani). Dunque si può dire che, mentre “moneta” pare un termine più legato alla materialità di un “pezzo”, tradizionalmente di metallo, che incorpora un valore di scambio, “denaro” appare una locuzione più astratta, destinata a designare sia la moneta, sia altre forme, come i biglietti di banca. “Valuta” è invece il termine generico che designa la moneta circolante e i titoli fiduciari che la rappresentano. Spesso nel linguaggio bancario essa intende fare riferimento a biglietti o monete di uno Stato straniero (valuta estera), in alternativa al termine “divisa”. Il termine “valuta” accoppiato a quello di “debito” (debito di valuta) forma un concetto contrapposto a quello di “debito di valore” per alludere al principio nominalistico proprio, per l’appunto, ai debiti di valuta, legati cioè ad un importo numerico fisso e che non cambia nel tempo. Il dibattito sulla definizione e la natura del denaro, pur di estrema attualità e fondamentale per la comprensione di tutti i fenomeni economici, può ben essere considerato nei tempi attuali “sotto traccia”, quasi avvolto da un alone di misterioso dogmatismo. Così è infrequente e desueto, ancorché essenziale, richiamare il pensiero di chi (L. VON MISES, The theory of money and credit, 1953, richiamato da G. NORTH, Che cosa è il denaro, Massa, 2010, 7 ss.), definendo il denaro come “la merce più commerciabile”, ne ha poi individuato gli elementi cardinali entro cinque categorie analitiche (sovranità/autorità/legge/sanzioni/continuità). L’idea di fondo è che lo scambio volontario nella prassi umana seleziona, a partire dal primitivo baratto, quei beni destinati a diventare “denaro”, in quanto “pezzi” fungibili e misurabili destinati a facilitare gli scambi economici (L. VON MISES, L’azione umana, Torino, 1959, 388 ss.). Soltanto successivamente l’Autorità ne avoca il controllo diretto con il proprio intervento regolatorio, dando vita al corso legale. L’elemento cruciale, spesso non colto, è che alla base di tutto ci sia il l’energia, il lavoro. Per l’originario baratto è semplice comprendere come lo scambio di un oggetto contro un altro sottenda una valutazione del lavoro necessario per la produzione di ciascuno dei termini della contrattazione (significativo, a questo riguardo, lo sviluppo del pensiero legato al “giusto prezzo”: cfr. il pensiero di T. D’AQUINO, Summa theologica, II le azioni umane, in particolare, ripreso da J. KENNETH GALBRAITH, Storia dell’economia, Milano, 1987, 36 ss.). Verso la fine del Duecento fu merito del francescano Pietro di Giovanni Olivi (G. TODESCHINI ̶ P.J. OLIVI, Un trattato di economia politica francescana: Il De emptionibus et venditionibus, de usuris, de restitutionibus di Pietro di Giovanni Olivi, Roma, 1980) mettere a fuoco come l’incremento del prezzo praticato dal mercante potesse essere giustificato dal lavoro connesso allo scambio, iniziando un percorso di emancipazione delle c.d. “usurae” rispetto al ghetto nel quale erano confinate dalla dottrina cristiana del tempo (C. PERROTTA, Paura dei beni, Milano, 2008, 63). Lo stesso discorso relativo al lavoro vale per l’oro. Infatti la sua estrazione richiede energia, intesa come risorse e mano d’opera. Il Bitcoin in un certo senso ne rinnova le caratteristiche, sia pure nella diametralmente opposta dimensione della virtualizzazione e dematerializzazione. Anche la produzione del Bitcoin infatti “costa” in termini di energia e/o lavoro (deve infatti essere “minato”, distribuito, governato: utenti, nodi, minatori e sviluppatori sono attori indispensabili di un processo che deve essere retribuito per poter procedere, proprio come l’estrazione del metallo prezioso.

(5) Tale locuzione (“valore”) possiede, in ogni caso, un significato relativo, nell’accezione propria del termine onde nessun bene può dirsi dotato di un valore intrinseco in senso stretto. Il “valore” di un bene è sempre un concetto relazionale e non assoluto, avendo, quale elemento di riferimento, l’attitudine di esso ad essere percepito come desiderabile nella scala preferenziale in uno specifico contesto temporale, spaziale e sociale. Quanto vale un litro di acqua potabile in mezzo al deserto infuocato? Quanto vale in mezzo a un lago? Anche l’oro, svolte queste premesse, è affetto da una relativizzazione assolutamente logica, onde si può concludere, anche per esso, per l’insussistenza “oggettiva” di un valore assolutamente intrinseco, proprio come per ogni altro bene: cfr. C. MENGER, Principi di economia politica, Torino, 1975, 105 ss.. Peraltro appare largamente insoddisfacente l’attuale assenza di riflessione su un ulteriore carattere fondamentale della moneta (intesa come denaro in generale). Importante è fare riferimento al pensiero di chi ha messo a fuoco (J.M. KEYNES, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, Torino, 2013, 421 ss.) come “la seconda diversità della moneta (rispetto agli ulteriori elementi di rendita n.d.r.) è che essa possiede una elasticità di sostituzione uguale, o quasi, a zero; la quale cosa significa che, con l’aumentare del valor di scambio della moneta, non vi è alcuna tendenza a sostituire ad essa qualche altro fattore…Questo deriva dalla peculiarità della moneta, che la sua utilità deriva soltanto dal suo valor di scambio, cosicché l’una e l’altro aumentano e diminuiscono parallelamente, col risultato che con l’aumentare del valor di scambio della moneta non vi è alcun motivo o tendenza, come nel caso degli altri fattori di rendita, a sostituire ad essa qualche altro fattore”. Spiegazione che varrebbe a far comprendere come l’attuale fase deflattiva (nell’ambito di una deflazione da debito: si veda il fondamentale lavoro di H. MINSKY, Potrebbe ripetersi? Instabilità e finanza dopo la crisi del ’29, Torino, 1982) nella quale si trova gran parte del mondo nonostante gli sforzi coordinati delle banche centrali, sia riconducibile ad una grave “malattia” del ciclo di creazione del denaro, di distorsione della struttura dell’interesse, di sovraindebitamento, di creazione incontrollata di strumenti finanziari “derivati”.

(6) È ben vero che il signoraggio (inteso come reddito derivato dall’emissione monetaria) si introduce in questa dinamica come divaricazione tra valore “intrinseco” della moneta (assunta la valenza relativa di tale termine, altrimenti destituito di significato, se inteso come misuratore assoluto di valore, avulso da un parametro relazionale) e valore “facciale” della stessa. Per una migliore intelligenza di come l’allontanamento del valore intrinseco causato dalla diminuzione della quantità di metallo rispetto a quello nominale della moneta possa accompagnarsi al dissesto economico, sarebbe non irrilevante lo studio della monetazione romana nell’arco temporale dalle origini al termine del periodo imperiale, cfr. G. PIZZAMIGLIO, Saggio cronologico, ossia storia della moneta romana dalla fondazione di Roma alla caduta dell’Impero d’occidente, Londra, (ristampa) 2019.

(7) Si faccia attenzione a non confondere la moneta elettronica con la criptovaluta o valuta virtuale, definita dalla dir. UE 30 maggio 2018 n. 843/2018 (“Quinta Direttiva Antiriciclaggio”) come «rappresentazione di valore digitale che non è emessa o garantita da una banca centrale o da un ente pubblico, non è necessariamente legata a una valuta legalmente istituita, non possiede lo status giuridico di valuta o moneta, ma è accettata da persone fisiche e giuridiche come mezzo di scambio e può essere trasferita, memorizzata e scambiata elettronicamente». Il considerando 10 della predetta direttiva (espressamente precisa: «Le valute virtuali non dovrebbero essere confuse con la moneta elettronica quale definita all’art. 2, punto 2, dir. UE 16 settembre 2009 n. 2009/110/CE, con il più ampio concetto di “fondi” di cui all’art. 4, punto 25, della dir. UE 25 novembre 2015 n. 2015/2366, con il valore monetario utilizzato per eseguire operazioni di pagamento di cui all’art. 3, lettere k) e l), dir. UE n. 2015/2366 cit., né con le valute di gioco che possono essere utilizzate esclusivamente all’interno di un determinato ambiente di gioco.

(8) L’esperienza della Svezia può essere citata come paradigmatica. L’utilizzo di una App (Swish) ha sostituito in fatto il contante. Anche in chiesa le offerte non sono più raccolte con il cestino, bensì per tale via. Addirittura le elemosine ai mendicanti vengono versate con questo sistema.

(9) La creazione di massa monetaria (la cui allocazione in circolo tramite le Banche commerciali avviene per il tramite dell’acquisto di titoli, per lo più di emissione governativa (ma non soltanto, essendo stati eletti al rango di “acquistabili” anche assets quali corporate bonds neppure contrassegnati da rating elevato, fino addirittura qualificati “junk”), dipende da “variabili” che costituiscono l’attuazione, unitamente alla determinazione della struttura dei tassi di interesse, della politica monetaria di ciascuna Banca Centrale. A titolo esemplificativo può essere assunta la recente azione della FED che, da una allocazione di assets in bilancio di circa 800 miliardi di USD, allo scopo di far fronte alla crisi del 2008 pervenne ad una sommatoria di per circa 4200 miliardi USD a fronte di una paritetica creazione di moneta fiat. Tale importo, dopo un leggero decremento (c.d. “tapering” intercorso tra il 2016 e il 2018), è “esplosa” a oltre 6200 miliardi USD in poche settimane a far tempo dal febbraio 2020 fino ai giorni in cui vengono scritte queste righe: cfr. la eloquente rappresentazione grafica ufficiale in: https://www.federalreserve.gov/monetarypolicy/bst_recenttrends.htm (consultato il 20 aprile 2020).

(10) Il principio nominalistico di cui all’art. 1277 cod. civ. consiste nella regola secondo la quale il denaro possiede una rilevanza giuridica autonoma rispetto agli altri beni, essendo connotato dal proprio valore di scambio, di misuratore dell’importanza economica degli altri beni. Così le obbligazioni pecuniarie si estinguono prestando una quantità di denaro (moneta avente corso legale nello Stato al tempo del pagamento) pari all’importo nominale previsto originariamente. Questa regola base ne implica altre: a) che un pagamento effettuato con moneta avente corso legale non può essere legittimamente rifiutato (c.d. principio liberatorio); b) che la moneta avente corso legale deve essere computata secondo gli importi nominalmente previsti (principio del valore nominale della valuta avente corso legale, che ne comporta l’irrilevanza dell’eventuale deprezzamento nel corso del tempo in relazione ai pagamenti che dovessero essere effettuati con termine di adempimento differito.

(11) A opposte conclusioni perviene l’analisi condotta in questo Volume da chi (M. PASSARETTA, Le valute virtuali in una prospettiva di diritto privato: tra strumenti di pagamento, forme alternative di investimento e titoli impropri) riterrebbe applicabile alle criptovalute la normativa in tema di obbligazioni pecuniarie con la sola eccezione dell’art. 1277 cod. civ. (supra, Capitolo cit., § 5).

(12) La legge ha recepito il testo dir. UE 30 maggio 2018 n. 843/2018 (“Quinta Direttiva Antiriciclaggio”), la quale ha introdotto una definizione di valuta virtuale: cfr. supra, nota 6.

(13) Prima di tale intervento la dichiarazione resa in atto dalle parti non avrebbe potuto sortire alcuna efficacia fidefacente: cfr. Cass., Sez. III, 27 novembre 2014 n. 25213.

(14) Questo implica che le parti debbano dichiarare in maniera specifica gli estremi degli strumenti di pagamento (assegni circolari, assegni bancari, bonifici) per il cui tramite il prezzo viene versato all’alienante, fermo il divieto di utilizzo di denaro contante per importi eccedenti determinati importi che continuano a variare nel tempo e che, come sopra riferito, sono pari ad euro 1999,00 a decorrere dal 1 luglio 2020 e di euro 999,00 a decorrere dal 1 gennaio 2021.

(15) Va dato atto come nel mondo la situazione stia evolvendo rapidamente. Si tratta, tuttavia, di approcci ancora sperimentali. La Svizzera ha aperto, sia pure cautamente, la possibilità di effettuare pagamenti con effetti legali in Bitcoin. Il Comune di Chiasso (Canton Ticino) dal 2018 accetta i pagamenti delle tasse locali sia pure limitatamente alle imposte per importo massimo 250 franchi. A Zug (canton Zugo), si consente analogamente per la minor somma di 200 franchi. Va sottolineato come, quando dovesse constatarsi l’esistenza di una criptovaluta legale facente capo ad un Paese straniero, sarebbe sufficiente, facendo riferimento all’art. 1278 cod.civ., denominare l’obbligazione pecuniaria in tale valuta, introducendo così un pagamento con effetti legali, sia pure su base volontaria e convenzionale, anche nell’ordinamento italiano.

(16) Occorre respingere l’idea che un pagamento effettuato in criptovaluta non sia tracciabile. In un certo senso si dovrebbe piuttosto riferire come un “movimento” scritto permanentemente sui registri condivisi della blockchain sia quanto di più duraturo e permanente possa essere immaginato. Inoltre la diffusa convinzione secondo la quale (assumendo in considerazione la criptovaluta per eccellenza) il Bitcoin, essendo una valuta virtuale decentralizzata (non essendo emessa né controllata da alcuna banca) sia totalmente anonima è fallace. Per una compiuta identificazione delle modalità di tracciamento nell’ambito delle transazioni operate tramite il ministero notarile, eventualmente ricorrendo all’istituto del deposito del prezzo, si veda: R.M. MORONE ̶ C. AGOSTO, Nuove modalità di pagamento del prezzo: criptovalute e deposito dal notaio («Il diritto Immobiliare») (a cura di) E. RUSSO, 2019.

(17) Si veda sul punto CNN, Quesito n. 3-2018/B, “Antiriciclaggio, compravendita di immobile, pagamento del prezzo in Bitcoin”, che fa ampio riferimento di quanto emerso dalla pronunzia della Corte di Giustizia Europea (C-264/14, sentenza 22 ottobre 2015) nonché dalle successive osservazioni ritraibili dalla Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate (Risoluzione n. 72/E del 2016). In particolare è stato affermato che le «operazioni relative a valute non tradizionali, vale a dire diverse dalle monete con valore liberatorio in uno o più paesi, costituiscono operazioni finanziarie in quanto tali valute siano state accettate dalle parti di una transazione quale mezzo di pagamento alternativo ai mezzi di pagamento legali e non abbiano altre finalità oltre a quella di un mezzo di pagamento” e che “la valuta virtuale a flusso bidirezionale “Bitcoin”, che sarà cambiata contro valute tradizionali nel contesto di operazioni di cambio, non può essere qualificata come “bene materiale” ai sensi dell’articolo 14 della direttiva IVA, dato che (…) questa valuta virtuale non ha altre finalità oltre a quella di un mezzo di pagamento» (Corte di Giustizia UE, Sez. V, 22 ottobre 2015 n. C-264/14). È stato inoltre rilevato che: «Il Bitcoin è una tipologia di “moneta virtuale” o meglio “criptovaluta”, utilizzata come moneta alternativa a quella tradizionale avente corso legale emessa da un’autorità monetaria. La circolazione dei Bitcoin, quali mezzi di pagamento, si fonda sull’accettazione volontaria da parte degli operatori del mercato che, sulla base della fiducia, la ricevono come corrispettivo nello scambio di beni e servizi, riconoscendone, quindi, il valore di scambio indipendentemente da un obbligo di legge. Si tratta, pertanto, di un sistema decentralizzato, che utilizza una rete di soggetti paritari (peer to peer) non soggetto ad alcuna disciplina regolamentare specifica né ad una autorità centrale che ne governa la stabilità nella circolazione» (Agenzia Entrate, ris. n. 72/E del 2016). Se ne trae la conclusione per cui, nel sistema Bitcoin, «l’irreperibilità delle parti effettive non deriva da una forma di protezione (in qualche modo reversibile o sospendibile) del dato, bensì da un anonimato intrinseco alla stessa tecnologia adottata. Ne deriva, pertanto, che la possibilità di un tracciamento, meramente informatico, nel senso appena accennato potrebbe essere del tutto ininfluente ai fini della normativa che ci occupa. Neppure l’autore del pagamento può infatti identificare il destinatario.” Il pensiero finale della risposta al quesito appare dubitativo: “Ad ogni modo, sulla base di quanto osservato e considerato che in fattispecie come quella prospettata si pone un’oggettiva impossibilità di adempiere ai summenzionati obblighi antiriciclaggio, si suggerisce una valutazione circa l’opportunità di procedere ad effettuare una segnalazione di operazione sospetta».

(18) La distinzione tra le due tipologie contrattuali possiede una rilevanza anche sotto il profilo fiscale: infatti nella permuta, ai sensi dell’art.43 n.1 lett. b) del DPR 26 aprile 1986 n. 131, la base imponibile è determinata dal valore del bene che da luogo all’applicazione della maggiore imposta, anche se va fatto espresso avviso come tale regola sia valevole alla condizione che entrambi beni dedotti nell’atto siano soggetti ad imposta di registro. Se infatti una delle attribuzioni fosse soggetta ad IVA, ciascun trasferimento sarebbe contrassegnato dal pagamento delle imposte appropriate.

(19) Luminoso, I contratti tipici e atipici, Milano, 1995 191 ss.

(20) I concetti di “bene ” e di ” cosa” sono spesso utilizzati indifferentemente quali sinonimi, senza che si consideri che rappresentano concetti assai diversi, poiché il primo possiede una valenza di carattere giuridico, il secondo un significato di tipo naturalistico. “Cosa ” è infatti una parte di materia (solida, liquida o gassosa). Peraltro non ogni entità naturalisticamente qualificabile come cosa è un bene in senso giuridico. Inversamente non ogni bene giuridicamente tale si identifica in una cosa. Vediamo di verificare questi due asserti. Può essere considerata un bene solo la cosa che possa essere fonte di utilità e oggetto di appropriazione (A. PINO, Contributo alla teoria giuridica dei beni («Rivista Trimestrale di Diritto e Procedura Civile»), 1948, 82). Per questo motivo non sono beni l’aria aperta, l’acqua del mare (con l’eccezione della parte separata in modo da risultare di utilità es.: acqua in taniche, aria in bombole). L’art. 810 cod. civ. muove per l’appunto da questi presupposti precisando che «sono beni (soltanto) le cose che possono formare oggetto di diritti», cioè quelle suscettibili di appropriazione e di utilizzo e che, perciò, possono avere un valore. Nel senso ristretto di cui all’art. 810 cod. civ. il bene è oggetto (diretto) dei soli diritti reali. Il medesimo può anche essere oggetto mediato (mediato in quanto oggetto diretto della prestazione, la quale tuttavia può consistere anche in una condotta non avente ad oggetto una cosa) dei diritti di credito, peraltro nelle sole obbligazioni di dare (ti devo cento euro). Se invece devo costruire una diga, l’obbligazione ha per oggetto la prestazione e quest’ultima ha a propria volta quale oggetto l’attività di costruzione della diga. Analogamente si può dire se devo eseguire una rappresentazione teatrale, la mia obbligazione consiste nel mero facere che corrisponde alla recitazione, senza in questo caso avere per oggetto un’attività che si concreti in seguito in una cosa (Analoghe considerazioni in F. SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 2002, 56). Ecco allora che si può affermare, come detto, che vi sono beni in senso giuridico (la prestazione di costruire, la prestazione della recitazione) che non consistono in cose. Tradizionalmente si distingue tra beni corporali ed incorporali. I primi sono quei beni che possono esser oggetto di percezione sensoriale o strumentale (energia elettrica, beni mobili ed immobili), i secondi sono creazioni astratte (marchio ed insegna, opere d’autore). Si veda S. PUGLIATTI, voce Beni: teoria generale («Enciclopedia del diritto»), 173; D. MESSINETTI, Oggettività giuridica delle cose incorporali, Milano, 1970, 106; O.T. SCOZZAFAVA, I beni e le forme giuridiche di appartenenza, Milano, 1982, p. 357. Ovviamente deve essere distinto il supporto materiale che veicola il bene immateriale da quest’ultimo. Il diritto sul primo è qualcosa di diverso dal diritto che investe l’altro, come d’altronde un conto è il diritto di proprietà di un token e l’analogo diritto su quanto vi fosse memorizzato.

(21) In questo Volume, v. supra, per una prospettiva del tutto divergente rispetto a quella qui esposta, M. PASSARETTA, Le valute…, cit., con speciale riferimento al § 3.

(22) Cfr. Trib. Firenze, 21 gennaio 2019 n. 18 del in cui si sottolinea che le criptovalute «possono essere considerate “beni” ai sensi dell’art. 810 cod. civ., in quanto oggetto di diritti, come riconosciuto ormai dallo stesso legislatore nazionale, che le considera anche, ma non solo, come mezzo di scambio, evidentemente in un sistema pattizio e non regolamentato…».

(23) È ben vero che il legislatore talvolta si è preoccupato di evitare facili frodi: così l’art. 38, l. 27 luglio 1978 n. 392, dopo aver attribuito al conduttore di immobile urbano il diritto di prelazione per l’ipotesi in cui il locatore intendesse trasferire a titolo oneroso l’immobile locato, impone a quest’ultimo l’obbligo di indicare nella comunicazione di voler procedere all’alienazione del bene “in ogni caso” l’entità del corrispettivo in denaro, con la conseguenza che la prelazione potrà operare anche in presenza di una permuta, sulla scorta del meccanismo di sostituzione del valore del bene espresso in moneta. Altrettanto potrebbe dirsi per la prelazione in materia di beni culturali: il II comma dell’art. 60, d.Lgs. 22 gennaio 2004 n. 42 prescrive infatti l’assoggettamento alla disciplina della notifica anche nel caso della permuta o della datio in solutum, ipotesi in cui «il valore economico è determinato d’ufficio dal soggetto che procede alla prelazione…».

(24) D. MINUSSI, La compravendita e la permuta, Napoli, 2003, 387. Si è reputato di qualificare come permuta e non come vendita lo scambio fra due monete, anche se tuttora in circolazione, quando dalle parti siano state considerate per il loro valore intrinseco (si pensi all’epoca in cui circolavano le cinquecento lire di argento) ovvero lo scambio di moneta di tagli grossi con quella di tagli piccoli (A. LUMINOSO, I contratti tipici ed atipici («Trattato di diritto privato») (a cura di) G. IUDICA ̶ P. ZATTI, Milano, 1995, 192). A prima vista potrebbe ritenersi permuta anche lo scambio fra una cosa e titoli di credito (ti pago questo appartamento con una cambiale di cento milioni, con un titolo obbligazionario emesso dalla Repubblica Ceca). Per il tramite di detti titoli, in sostanza, si trasferisce la titolarità di un diritto di credito, ciò che potrebbe rientrare fra gli “altri diritti” menzionati dall’art. 1552 cod. civ.. In effetti, però, perlomeno alcuni titoli di credito (assegno circolare, vaglia bancario assegno bancario, ecc.) hanno una funzione surrogatoria della moneta, altri (titoli obbligazionari, cambiali) sono connotati da una quotazione che riflette l’affidabilità del debitore (D. RUBINO, La compravendita («Trattato di diritto civile e commerciale» (a cura di) A. CICU ̶ F. MESSINEO, Milano, 1971, 239 e M.C. BIANCA, La vendita e la permuta («Trattato di diritto civile italiano») (a cura di) F. VASSALLI, Torino, 1972, 1144).

(25) Si veda sul punto la ricostruzione di A. LUMINOSO, I contratti tipici ed atipici cit., 193, che cita la divergenza tra l’opinione di chi nel passato, allo scopo di discernere tra vendita e permuta, proponeva il criterio soggettivo della considerazione di quale fosse l’oggetto preminente della contrattazione e quella di coloro che, al contrario, si basavano su un criterio oggettivo, finendo con chi propendeva per fare riferimento ad un tertium genus (contratto misto).

(26) Essendosi stabilito che, al fine di discernere se un contratto traslativo della proprietà di un bene, per il quale la controprestazione fosse costituita, in parte da una cosa in natura e, in parte, da una somma di denaro, costituisca una compravendita o una permuta, una volta che si escluda la duplicità di negozi ovvero l’ipotesi del contratto con causa mista, occorre avere riguardo non già alla prevalenza del valore economico del bene in natura ovvero della somma di denaro, bensì alla comune volontà delle parti, ricostruendo gli interessi comuni e personali che le parti avevano inteso regolare con il negozio ed accertare se i contraenti avessero voluto cedere un bene contro una somma di denaro, commutando una parte di essa, per ragioni di opportunità, con un altro bene, ovvero avessero concordato lo scambio di beni in natura, ricorrendo all’integrazione in denaro soltanto per colmare la differenza di valore tra i beni stessi.

(27) Questo punto va adeguatamente ponderato. Parrebbe infatti che, pur riflettendo il pagamento ancora da eseguirsi una circostanza fattuale futura, come tale in un certo senso inattingibile da parte del notaio, esista un preciso onere di indicazione, quantomeno a livello programmatico, dei (futuri) strumenti di pagamento che renderebbe problematico una successiva variazione, soprattutto se “pensata” fin dal tempo dell’atto traslativo cui si riferisce l’obbligazione di pagamento a termine: cfr. CNN, Studio Antiriciclaggio n. 50-2013/B, Pagamenti ante 4 luglio 2006 e pagamenti dilazionati tra normativa fiscale e norme antiriciclaggio, (Approvato dalla Commissione Antiriciclaggio in data 24 gennaio 2013). Ancor più significativamente: Agenzia delle Entrate, Risoluzione N. 53/E del 20 maggio 2014, Indicazione analitica delle modalità di pagamento del corrispettivo nel caso di pagamenti rinviati, avente ad oggetto la “Indicazione analitica delle modalità di pagamento del corrispettivo nel caso di pagamenti rinviati ad un momento successivo rispetto al perfezionamento degli atti di cessione immobiliare – art. 35, comma 22, d.L. 4 luglio 2006, n. 223” la cui parte conclusiva testualmente recita: «Quanto sopra induce a ritenere che, in relazione ai pagamenti rinviati ad un momento successivo rispetto al perfezionamento degli atti di cessione di diritti immobiliari, l’obbligo di indicazione analitica delle modalità di pagamento del corrispettivo possa essere assolto fornendo in atto gli elementi utili alla identificazione, in termini di tempi, importi ed eventuali modalità di versamento, di quanto dovuto a saldo. Del resto, è nella piena facoltà dell’Amministrazione Finanziaria, nell’ambito dei poteri di controllo di competenza, di procedere comunque a verificare la coerenza tra le corrispondenti movimentazioni finanziarie, una volta manifestatesi, e i patti conclusi tra acquirente e venditore. In tali casi, l’indicazione nell’atto degli elementi relativi ai pagamenti futuri esclude che possa essere irrogata la sanzione amministrativa e la correlata sanzione impropria, ossia l’assoggettamento dell’atto alla procedura di accertamento di maggior valore ex art. 52, comma 1, d.P.R. 26 aprile 1986 n. 131, c.d. TUR, con sostanziale disapplicazione del regime del “prezzo-valore”».

(28) Situazione, questa, che sostanzierebbe un accordo novativo. Vi è discordanza in dottrina circa le differenze fra novazione oggettiva e datio in solutum: se alcuni Autori ritengono che, conformemente all’opinione prevalente, mentre la dazione in pagamento estingue il rapporto obbligatorio senza che ne sortisca l’instaurazione di uno ulteriore, l’effetto tipico della novazione determinerebbe, al contrario, l’insorgenza di un nuovo rapporto (S. RODOTÀ, voce Dazione in pagamento, Enciclopedia del diritto, 736; F. GALGANO, Diritto civile e commerciale vol. II, Padova, 1990, 44), altri hanno ricercato la distinzione tra le due figure piuttosto nell’esistenza dell’animus novandi, dall’accertamento del quale dipenderebbe l’ammissibilità di un negozio non novativo, bensì meramente modificativo dell’oggetto (A. ZACCARIA, La prestazione in luogo dell’adempimento fra novazione e negozio modificativo del rapporto, Milano, 1987, 137 e ss.). Vi è inoltre chi reputa che la novazione possieda una singolare efficacia di tipo estintivo-costitutivo, mentre la dazione in pagamento avrebbe soltanto efficacia solutoria, un effetto cioè che implica comunque la modificazione oggettiva dell’obbligazione (U. BRECCIA, Le obbligazioni («Trattato di diritto privato») (a cura di) G. IUDICA ̶ P. ZATTI, Milano, 1991, 555).

(29) Questo è precisamente l’effetto della datio in solutum. l’effetto estintivo dell’obbligazione si verifica soltanto una volta che, con il consenso del creditore, il debitore abbia effettivamente eseguito la diversa prestazione. Il mero accordo sulla diversa prestazione da eseguire non estinguerebbe il diritto di credito, valendo semplicemente a precludere al creditore la legittima pretesa della prestazione originaria ed il correlativo rifiuto della diversa prestazione stabilita che pur gli fosse stata offerta.

(30) Come ritiene parte della dottrina: N. GASPERONI, Collegamento negoziale e connessione fra negozi («Rivista del diritto commerciale»), 1955, 359 ss. e R. SACCO̶ G. DE NOVA, Il contratto («Trattato di diritto privato») (a cura di) P. RESCIGNO, Torino, 1995, 465 ss..

(31) Come sostiene A. RAPPAZZO, I contratti collegati, Milano, Giuffré, 1998, 13.

(32) Cfr. Cass., Sez. I, 25 agosto 1998 n. 8410; Cass., Sez. I, 9 aprile 1983 n. 2520.

(33) D. MINUSSI, Il contratto t. I, Napoli, 2007, 321. Si tratta di una tesi che trova nelle intuizioni di M.C. BIANCA, Diritto civile Vol. III, Milano, 2000, 457 (il quale identifica una causa parziale dei singoli contratti ed una causa complessiva dell’intera operazione) e di A. RAPPAZZO, I contratti collegati cit., 38 (che ravvisa nel collegamento il fenomeno della “doppia causa”, l’una relativa a ciascun “fragmento” negoziale e l’altra che presiede all’intera operazione economica) una sua prima enunciazione, laddove detti Autori sottolineano la peculiare interconnessione causale che in concreto si pone tra le cause tipiche dei negozi posti in essere, ma che può essere più correttamente esplicitata una volta accolto il concetto di causa sintetica. L’aspetto causale tipico (astratto ed oggettivo), viene in concreto e da un punto di vista soggettivo plasmato dallo scopo perseguito dalle parti. Tuttavia non è che si dia una causa del singolo contratto ed una (super)causa intesa come elemento aggregante dell’intera operazione afferente al collegamento. Il nodo si può risolvere piuttosto nell’apprezzamento della corrispondenza tra la causa astratta (tipica) del singolo negozio avvinto nell’operazione complessa e la causa concreta sempre ad esso riferita. È precisamente quest’ultima che risulta in grado di assumere un peculiare atteggiamento, in concomitanza ed in correlazione con l’analogo elemento proprio di ciascuno degli atti negoziali implicato nell’operazione. Così ragionando è possibile intendere l’empirica enunciazione che si sintetizza nella locuzione simul stabunt, simul cadent nella più precisa regola del sindacato tra corrispondenza della causa concreta rispetto alla causa astratta (cioè al tipo). Quando questo confronto (che, si rammenta, per i negozi tipici, deve partire dalla causa in astratto per giungere a quella concreta) evidenzia una valutazione negativa dell’elemento causale (inesistenza, illiceità) l’interprete non potrebbe non trarne le conseguenze del caso, cioè a dire la nullità del singolo atto negoziale ciò che verrebbe per lo più a coinvolgere anche gli altri negozi, sempre sotto lo stesso profilo.

(34) Si veda supra, note 7 e 9: CNN, Quesito n. 3-2018/B; Risoluzione AE n. 72/E del 2016; CNN, Studio Antiriciclaggio n. 50-2013/B, “Pagamenti ante 4 luglio 2006 e pagamenti dilazionati tra normativa fiscale e norme antiriciclaggio” (Approvato dalla Commissione Antiriciclaggio in data 24 gennaio 2013). Ancor più significativamente: Agenzia delle Entrate, Risoluzione N. 53/E del 20 maggio 2014.

(35) Ad esempio il contratto di portierato, con il quale un soggetto si obbliga ad effettuare prestazioni quali la custodia e la pulizia di uno stabile verso il corrispettivo di un emolumento periodico unitamente alla fruizione di una porzione immobiliare da utilizzare quale abitazione, possiede elementi causali propri sia del rapporto di lavoro subordinato sia della locazione senza essere assimilabile in toto né all’una né all’altra contrattazione.

(36) Questo percorso può essere dal punto di vista logico assimilato a quello che conduce nelle figure retoriche al passaggio dalla similitudine (note di pegno) alla metafora (denaro privo di sottostante). Il che non è privo di conseguenze neppure nell’opinione di chi ha scandagliato il tema con speciale riferimento al pensiero giuridico (F. GALGANO, Le insidie del linguaggio giuridico, Bologna, 2010, 75 ss.).

(37) Questo vale tuttavia soltanto per quelle criptovalute che, come il Bitcoin, siano imperniate su uno schema proof-of-work come salvaguardia alla contraffazione digitale. In molti altri casi non è così: ad esempio per molte “Altcoin”. Il termine (che sta per “alternative coin” designa genericamente tutte le altre criptomonete diverse da quella primigenia, vale a dire dal Bitcoin (Ethereum, Litecoin, Bitcoin Cash, Ripple, Monero, Iota, etc.). Quello che conta qui è semplicemente riferire come gli elementi propri del Bitcoin siano la “robustezza” della struttura della crittografia, l’energia funzionale all’attività di mining e la struttura logica intrinsecamente deflattiva (possibilità via via decrescente di creazione di nuova moneta). Tutto questo ha condotto ad attribuire al Bitcoin la fiducia in un valore “intrinseco” (con tutti i limiti in cui tale termine può avere, come già detto più sopra in nota 3). Quanto alle c.d. “stable coin” vale a dire a quelle criptovalute che, a differenza del Bitcoin hanno un prezzo stabile perché vincolato a un mezzo di scambio stabile (che può essere rappresentato anche da una moneta avente corso legale, onde si parla es. della possibilità di creare criptodollari), in realtà non fanno altro se non replicare il valore del “sottostante”, veicolandone gli scambi su un ledger decentralizzato. Non differiscono dunque in nulla rispetto a ciò che rappresentano, distinguendosi semplicemente per lo strumento di circolazione utilizzato. L’euforia che alla fine del 2018 ha condotto alla formazione di una vera e propria “bolla” nelle quotazioni delle criptovalute, ha dato luogo alla creazione di un numero di esse del tutto esorbitante, fino al punto che alcune di esse ben possono essere considerate schemi piramidali senza alcun valore. Questo spiega anche il tenore di alcune decisioni, come quella della sezione specializzata della Corte di Brescia. In prima istanza (Trib. Brescia decreto 18 luglio 2018) i giudici avevano sposato l’idea di fondo del notaio. Costui aveva ricusato l’iscrizione nel Registro delle Imprese della deliberazione assembleare di aumento del capitale tramite conferimento di criptovaluta a motivo della volatilità della stessa. Più specificamente, le Sezioni Specializzate avevano ritenuto inaffidabile la perizia di stima e dunque non praticabile nella specie il conferimento. La criptovaluta in esame (una altcoin) era stata infatti emessa dagli stessi conferenti, secondo un meccanismo autoreferenziale. I Giudici avevano però precisato come non fosse genericamente «in discussione l’idoneità della categoria di beni rappresentata dalle c.d. “criptovalute” a costituire elemento di attivo idoneo al conferimento nel capitale di una s.r.l.». App. Brescia 30 ottobre 2018, adita in funzione di giudice del reclamo, ha confermato il provvedimento di diniego con una motivazione in parte differente, concludendo che «non è pertanto possibile assegnare alla criptovaluta […] un controvalore certo in euro, essendo a tal fine precluso, per le ragioni sopra esposte, il ricorso alla mediazione della perizia di stima. Conclusivamente, non è possibile attribuire alla criptovalute una determinazione in valore (e cioè in euro) effettiva e certa».

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